Opinioni

Una sconfitta solo apparente. Il seme di don Roberto, Como e noi tutti

Chiara Giaccardi giovedì 17 settembre 2020

Il Rosario nella Cattedrale di Como per don Roberto Malgesini è fissato per le 20.30 di lunedì, poche ore dopo la sua uccisione. Mentre camminiamo spediti con una buona mezz’ora di anticipo arriva un messaggio: è di un ragazzo senza fissa dimora, poco più di vent’anni, che ogni tanto viene da noi per una doccia e un pasto. Scrive: «Mi ha aiutato tante volte, per favore prega anche da parte mia che io non sono capace». È già una preghiera questa, ovviamente.

Alle 20 la Cattedrale è ormai piena, e le tante persone che continuano ad arrivare sono invitate a distribuirsi nella piazza. Che non è tanto grande, e per di più è in parte occupata da un paio di bar ristoranti dove i pochi avventori, per lo più stranieri, continuano a cenare con aria stupìta e spaesata. Scende il buio e brillano le candele che in tanti hanno portato.

Continuano ad arrivare persone: di tutte le età, di tutti i colori, di tutte le fedi. Dai tanti ragazzi che conoscevano don Roberto, sacerdote impegnato in uno dei quartieri più difficili della città, e si sentivano da lui accolti e accompagnati, fino a benestanti comaschi dei quali si sa che considerano sbandati e immigrati più che altro un problema. E un’infinità di gente che in chiesa proprio non ci va mai. Un piccolo miracolo di questo prete schivo e appassionato di Dio e dell’umanità.

La porta è spalancata e il sagrato diventa un’estensione della cattedrale, senza più distinzione tra dentro e fuori. Non ci sono altoparlanti, ma le Ave Maria e i Padre Nostro risuonano sommessamente eppure distintamente in tutta la piazza.

Un paesaggio sonoro di commozione, costernazione, dolore, affidamento. Una città normalmente sonnacchiosa e divisa, la mia, ora stretta in preghiera attorno al vuoto che lascia questo uomo buono. Chi passa, ignaro, si ferma. Qualcuno chiede, nessuno resta indifferente. Forse la Chiesa si vede proprio in questi momenti, quando il senso della mancanza è così forte che diventa presenza che unisce, e desiderio di bene. Colpisce il contrasto tra il numero e la varietà delle persone in preghiera e il carattere di un sacerdote che non era social, che non rilasciava dichiarazioni, che non faceva polemica anche di fronte ad azioni ispirate al principio del 'decoro urbano' più che della carità cristiana.

Mai una parola, solo una quotidianità umile e concreta. La sua magrezza dice quanto poco tenesse per sé di quel che aveva. Il sorriso però non gli mancava mai. Ci sono tanti registri della comunicazione, e il suo era il più autentico. Una vita che parla, e che proprio per questo ha la forza dell’esempio. Che può ispirare altri, dando fiducia che ciascuno può fare qualcosa per rispondere alle sfide di questo tempo, e per rispondere del legame che ci unisce. Un messaggio inequivocabile: la vita, ogni vita, è una storia sacra, e quindi vale la pena spendere la propria perché questo valore sia riconosciuto, soprattutto laddove appare negato. Una comunità orante, quella di lunedì sera, unita attorno al mistero del legame inestricabile tra la vita e la morte. Chi è disposto a perdere la propria vita la trova, dice il Vangelo.

È il dilemma tra sicurezza (dove in nome di una sopravvivenza individuale che diventa non-vita ci si barrica contro gli altri) e salvezza (dove in nome di una pienezza che è di tutti si è disposti persino a perdere la propria vita). Don Roberto ha scommesso sulla salvezza, e la sua morte violenta, per mano di una della tante persone che aveva aiutato, è una sconfitta solo apparente. E che non sia una sconfitta dipende anche da noi. Che chi ami ti può uccidere lo sapevamo già, ne abbiamo tanti esempi nella storia e nel presente. Questo trauma ci consegna un mandato che sta a noi raccogliere: non rassegnatevi all’indifferenza, non girate la testa dall’altra parte lasciando che crescano zone grigie di odio, risentimento e sfruttamento, ma fate la vostra parte. Per ricucire anziché separare, per soccorrere anziché abbandonare, per accompagnare ed essere così accompagnati a prendersi cura della propria umanità altrimenti atrofizzata. Siamo paralitici, e don Roberto, con la sua vita e con la sua morte, ci dice che possiamo prendere il nostro lettuccio e camminare.

La sua morte è stata accostata a quella di un altro prete comasco, don Renzo Beretta, morto nel 1999. Io la lego a quella di una grande donna, Annalena Tonelli, uccisa nel 2003 in Somalia dove aveva speso la sua vita. Era ben consapevole dei rischi che correva, e del fatto che la vita o è rischio (scommettere sulla vita a costo di perderla) o non è. Aveva scritto: «Se io morissi... e le chances sono molte, più che mai durante episodi di guerra come quello che stiamo vivendo, se io morissi, tutto questo servizio morirebbe con me, anche se spero che questo mio seme una volta morto marcirà e darà frutto, il solo frutto che conta: amore, ' care', tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia nell’amore». Che questo frutto, che questi frutti maturino dipende da ciascuno di noi. Il lungo e composto applauso di lunedì sera a Como, insieme al suono delle campane di una Chiesa che c’è, ci danno speranza.