Opinioni

Il Nordafrica sei mesi dopo. Una primavera che deve maturare

Riccardo Redaelli sabato 18 giugno 2011
A sei mesi dall’inizio di quell’impetuosa ondata di rivolte spesso definita come "primavera araba", è forse possibile cercare di tracciare un primo bilancio, sia pure provvisorio, che non sia concentrato solo sull’irruento mutamento imposto dalle proteste. In un  panorama sclerotizzato e politicamente ormai asfittico come era quello della Sponda Sud del Mediterraneo il vento del rinnovamento è stato un evento positivo e liberante. Da guardare e accompagnare con favore, tanto più che le "parole della rivoluzione" sono riecheggiate familiari a noi in Occidente, nel loro proporre e volere dignità, rappresentanza, lavoro, speranza per il futuro. Come quindi non guardare con grandi attese e come non incoraggiare i processi di trasformazione politica in Tunisia ed Egitto, i due Paesi capaci di cacciare presidenti autocrati al potere da decenni? Come non appoggiare i propositi riformisti in Marocco? Come non spingere lo sguardo sino all’Arabia Saudita delle donne che cominciano ad alzare testa e voce, reclamando almeno il volante della loro auto? Ma questa simpatia e vicinanza non devono impedirci di vedere i chiaroscuri di una trasformazione ancora incompleta e fragile.Si parla spesso di rivoluzione per definire gli avvenimenti di questi mesi; eppure, il concetto di rivoluzione implica un mutamento radicale e permanente del precedente sistema politico e delle élite di potere politico-amministrative. Ora, a Tunisi come al Cairo, sembra mutata solo la parte più visibile del vecchio regime. Ma molte delle strutture e dei personaggi del passato sono ancora lì. Nonostante gli slogan che insistono sui concetti di democrazia e libertà,  i partiti islamisti dimostrano di essere capaci di una forte mobilitazione popolare. Per quanto la loro agenda e le loro parole appaiano moderate, certi segnali che arrivano dalla maggior visibilità delle forze salafite in Egitto e dalle pressioni crescenti  verso la minoranza copta lasciano inquieti.Da questa prospettiva, l’azione internazionale risulta perciò ancora più importante, come stimolo e incoraggiamento affinché gli sviluppi politici interni a quei Paesi non si tramutino in una nuova delusione. Purtroppo, l’Unione Europea paga le scelte dissennate di Parigi nel buttarsi a capofitto nell’avventura libica e i troppi distinguo delle capitali europee; così che oggi la voce dell’Europa risulta non solo flebile - cosa avvenuta spesso in passato - ma cacofonica e incomprensibile. L’impasse di una politica concordata e unitaria verso la Sponda Sud , tramontato il partenariato euro-mediterraneo, si rivela come un elemento di debolezza per l’azione di soft power e di indirizzo per tutta la comunità internazionale.Ma il vento della rivolta non si è tradotto solo nella caduta quasi indolore dei dittatori egiziano e tunisino. In altri paesi le proteste hanno visto il dispiegarsi di una repressione sempre più brutale:  in Bahrein, Yemen e Siria i regimi al potere hanno reagito con massacri spaventosi; per tacere della Libia squassata da una guerra civile in cui si sta impantanando anche la Nato. Per l’Italia, geograficamente così esposta alle turbolenze mediterranee, tutto ciò si traduce in un aggravamento del fenomeno dell’immigrazione "irregolare". Un tema problematico di per sé, ma che funge anche da perfetto parafulmine delle nostre fibrillazioni politiche interne e che quindi spinge a mosse più d’immagine che reali. Come la richiesta che le forze marittime della Nato si impegnino nei "respingimenti": un termine apparentemente asettico, ma che significa ributtare centinaia di persone disperate in situazioni spaventose e di pericolo reale, senza neanche guardarle in faccia riconoscendo persone in fuga dalla guerra e perseguitati religiosi e politici. Non bisogna essere grandi esperti delle precedenti azioni Nato per sapere che difficilmente essa potrà impegnarsi efficacemente, dati gli spinosi problemi giuridico-legali che ciò comporta. Tanto più alla luce dell’egoistico disinteresse di troppi  Paesi membri, che rifiutano di dare a questo problema una dimensione comunitaria. Parimenti, rimane tutta da verificare l’efficacia legale dell’accordo firmato ieri in tema di controllo dei flussi migratori fra il nostro ministro degli Esteri e il rappresentante del Consiglio di Transizione libico.In definitiva, il timore è che dopo una inaspettata primavera politica, nel mondo arabo, ritorni subito l’autunno dello scontento, saltando a pié pari un’estate di libertà lungamente attesa. Non può e non deve essere così.