Opinioni

La ricetta dei songoli Stati. Una mutazione genetica dalle ceneri della crisi

Giorgio Ferrari sabato 28 febbraio 2009
A scorrere i dati disaggregati dell’e­conomia mondiale verrebbe solo da mettersi le mani nei capelli. Nel quar­to trimestre 2008 il Pil americano è sce­so al 6,2% su base annua, il peggior ri­sultato dal 1982 dovuto principalmen­te alla riduzione dei consumi, al calo delle scorte aziendali e al calo delle e­sportazioni. Allo stesso tempo, nono­stante le immani iniezioni di liquidità e i progetti di nazionalizzazione, il setto­re bancario statunitense è in rosso di al­meno un trilione ( ovvero un milione di miliardi) di dollari a causa delle perdi­te rovinose causate dalla crisi dei mutui iniziata nell’estate del 2007 e prosegui­ta con i fallimenti, le fusioni, i dispera­ti salvataggi protrattisi per tutto il 2008. L’Europa non sta meglio: le banche del Vecchio continente sono in affanno per le forti esposizioni nei confronti dei Pae­si dell’Est, fra i quali ve ne sono alcuni, come la Lettonia, che da promettente matricola dell’Unione europea si sta tra­sformando in una nazione dal Pil in ca­duta libera, la disoccupazione in forte crescita e la seria prospettiva del falli­mento e dei disordini sociali che ne se­guirebbero. Anche il Giappone, seconda economia mondiale, è in pesante sofferenza: la produzione industriale crolla al ritmo record del 10%, i consumi delle famiglie frenano del 5,9%, il settore automobili­stico, vero e proprio cuore pulsante del­la ricchezza nipponica, ha perso a gen­naio il 41% su base annua, il peggior da­to dal 1967. Per tutto il ricco mondo oc­cidentale il denominatore comune è da tempo uno solo, recessione, per non di­re – e ci si sforza di non dirlo – grande depressione, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso. Tuttavia, nonostante questo impressio­nante bollettino della salute economi­ca del mondo, abbiamo concreti indizi per rinunciare al catastrofismo cui si sa­rebbe tentati di abbandonarsi. La ra­gione principale sta nelle risorse delle singole nazioni. È vero, i grandi Paesi stanno affannosamente cercando il mo­do di riscrivere le regole, di dare cioè ai mercati, alle imprese, ai cittadini quel­la fiducia senza la quale non vi può es­sere alcuna ripresa. «Nessun mercato fi­nanziario – dicono –, nessun prodotto dei mercati finanziari, nessun azionista del mercato finanziario può agire sen­za regole e senza controlli » . È esatta­mente questo che i vari G7, G8, G20 (cruciale potrà essere a questo proposi­to quello del 2 aprile prossimo con la presenza di Barack Obama) si ripro­mettono di fare. Perché dunque non indulgiamo al ca­tastrofismo? Per almeno due motivi. Il primo di natura, diciamo così, campa­nilistica. L’Italia – a cagione della sua propensione al risparmio, al relativo provincialismo del suo sistema banca­rio e al basso rischio che i suoi impren­ditori amano correre – vivrà al massimo un paio d’anni di stagnazione e poi si riprenderà. Esattamente come fanno le piccole imprese rispetto a quelle gran­di: più snelle, più rapide nel cogliere i mutamenti, meno affardellate di oneri. La seconda ragione riguarda l’impalpa­bile mutazione genetica in atto nel mondo: ciascun Paese, per quanto cer­chi di negarlo, sta provvedendo da sé al proprio salvataggio, in barba alle rego­le condivise, ai trattati sottoscritti e ai parametri che dovrebbe osservare. Forse questa sarà la fine dell’Unione eu­ropea come l’avevano concepita in pri­mo luogo gli gnomi di Bruxelles, al pa­ri di varie altre istituzioni concepite bel­le sulla carta, mentre poggiavano su squilibri inaccettabili e crescenti. Ma proprio grazie a queste cure fai- da- te potrebbe dal disordine, a tasselli suc­cessivi, spuntare un quadro mondiale pronto a quel punto – e solo a quel pun­to – ad accettare e adottare regole nuo­ve, più realistiche e più attente al vissu­to dei popoli. Questo almeno è ciò che oggi speriamo, lottando contro il pessi­mismo della ragione.