Opinioni

La battaglia per la vita. Una famiglia in prestito per chi non ce la fa

Daniela Pozzoli domenica 20 febbraio 2011
Uno dei padri della prima legge sull’adozione in Italia, che risale a quarantaquattro anni fa, era solito dire che accoglienza e gratuità non si imparano né si insegnano ai figli. Si possono solo vivere. Devono pensarla così anche le famiglie – ancora poche, vista la novità della proposta – che hanno deciso di aprire la loro casa e il loro cuore a una mamma in difficoltà, spesso minorenne, senza familiari e con una storia già pesante alle spalle, e al figlio, prendendoli entrambi in affido. Ospitare in casa un bimbo molto piccolo, ben sapendo che presto (al massimo nel giro di sei mesi, un anno) se ne andrà, e non per questo lesinargli cure, attenzioni e amore, è però l’aspetto meno complicato in questa esperienza. Dai racconti delle coppie intervistate in uno studio appena pubblicato risulta evidente che il momento del distacco dal bambino non è facile per nessuno. Né per la coppia di genitori affidatari ai quali ha rivolto magari le sue prime parole, né per i loro figli che in tutti i casi esaminati si sentono coinvolti ed esaltati fin dal suo arrivo, e poi lacerati dallo «strappo» emotivo quando se ne va. Ma se questo è l’aspetto più facile della vicenda – con tutte le implicazioni che comporta affezionarsi a un essere indifeso pur sapendo che non è né sarà mai «nostro» – la prova più impegnativa per le famiglie che accolgono è farsi carico anche della madre naturale, spesso fragile e confusa. Significativo il racconto di una donna affidataria intervistata che nota «l’estremo disordine nel quale la ragazza tiene la sua camera». Come a dire che quella presenza ancora «estranea» lì dentro, sta in qualche modo rompendo un equilibrio familiare consolidato. L’immaturità della giovane madre spesso è tale da far pensare agli affidatari di doversi prendere cura «di due minori», seppure di età diversa. La difficoltà sta proprio qui: non trattare la mamma come un’altra figlia a tempo, ma come una persona adulta che non è ancora capace di stare di fronte al figlio, prendendola per mano e insegnandole la strada da percorrere per realizzare fino in fondo la sua vocazione di genitore. Spesso addirittura aiutandola a rivedere, come in un film, «spezzoni» della sua vita per non commettere più gli stessi errori. Una soluzione non semplice da realizzare, ma più adeguata rispetto alla comunità perché permette a madre e figlio di fare «esperienza di famiglia» e garantisce la continuità di un rapporto speciale nato fin dalle prime settimane di gestazione. È nel pancione che il feto riconosce il battito del cuore della madre e il suono della sua voce: tutto questo gli rimarrà come «eredità». Ed è all’insegna del riconoscimento di questo «filo rosso», non solo biologico ma anche emotivo, che si sceglie di salvaguardare quel legame facendosene carico attraverso l’affido di entrambi. È compito impegnativo e insieme gratificante, per una famiglia affidataria, aprirsi all’accoglienza di due fragili e preziose esistenze. E confrontarsi con una madre che ha smarrito l’ordine delle cose e il senso segreto della relazione col figlio. Una madre che chiede una seconda chance, resa possibile solo dalla gratuità con cui si sente accolta.