Opinioni

La condanna di Aung San Suu Kyi. Una donna simbolo nel mirino dei generali

Fulvio Scaglione mercoledì 12 agosto 2009
Rischiava cinque anni di carcere. La corte gliene ha inflitti tre e la giunta militare, senza nemmeno fingere un minimo distacco dal potere giudiziario, si è concessa il lusso di ridurli a 18 mesi di arresti domiciliari. Quel tanto che basta per farle pagare una presunta turbativa al processo di democratizzazione del Paese e, soprattutto, per tagliarla fuori dalle elezioni politiche del 2010, che i generali promettono libere e trasparenti, a patto naturalmente che non possa parteciparvi il candidato più popolare e autorevole. La farsa di Myanmar ( a noi per lungo tempo noto come Birmania) prosegue e con essa, purtroppo, la sofferenza di Aung San Suu Kyi, 64 anni, premio Nobel per la Pace nel 1991, fondatrice della Lega nazionale per la democrazia, simbolo insopprimibile dei diritti civili dei popoli asiatici. Suu Kyi ha passato in prigionia quasi quindici dei ventuno anni ormai trascorsi da quando i generali hanno preso il potere. La sua colpa: aver vinto con largo margine le elezioni del 1990, risultato rovesciato con la forza da un golpe militare. Da allora, il regime l’ha trattata con straordinaria brutalità per spingerla a lasciare il Paese, negandole di assistere il marito Michael malato terminale ( 1997), attentando alla sua vita ( 2003), negando le cure mediche diventate necessarie alla sua salute deteriorata, sfruttando qualunque episodio per prolungare una detenzione che ha solo ragioni politiche. Quest’ultima condanna è arrivata perché nel maggio scorso un misterioso mormone americano, John Yettaw, violò di propria iniziativa l’arresto domiciliare della Suu Kyi, dicendo di volerla avvertire di un pericolo incombente. La determinazione impiegata nel perseguitare una donna sola e armata unicamente di prestigio personale è l’evidente dimostrazione del fatto che la giunta militare birmana ancora considera Aung San Suu Kyi un pericolo mortale per la propria sopravvivenza. E di questo infatti si tratta: Myanmar è oggi un esempio di mal governo, di un Paese che pur disponendo di buone risorse non è mai davvero decollato ( e, anzi, ha rischiato il tracollo nel 2003, quando venti banche private hanno chiuso per sempre gli sportelli) e si accontenta di sfruttare in modo parassitario l’esportazione di gas e petrolio e l’amicizia interessata della Cina, il principale partner economico. La casta militare, e la burocrazia di Stato che vive nella sua ombra, drenano altra ricchezza e la rendono improduttiva. Chiuso su se stesso e ingessato nei propri riti, il governo dei generali non può non vedere come aliena e insidiosa una figura come quella della Suu Kyi, cresciuta alla scuola del pacifismo gandhiano, colta ( con laurea a Oxford), cosmopolita ( ha vissuto in India, Gran Bretagna e Stati Uniti, ha sposato un americano) e immersa fin da bambina nella dialettica politica ( suo padre, Aung San, fu uno dei padri della patria birmani, sua madre fu ambasciatrice, lei ha lavorato anche all’Onu). Per fortuna il resto del mondo, anche se all’atto pratico impotente, non l’ha abbandonata ed è in grado di esercitare qualche pressione ( sebbene finora poco efficace). Ma l’emarginazione e la persecuzione di figure come la sua, capaci di portare un contributo politico creativo in un’epoca di globalizzazione e di contatti sempre più fitti, è proprio ciò che costringe ancora molti Paesi a un ruolo marginale rispetto alle proprie potenzialità, spingendoli magari poi a inseguire sogni nucleari per compensare il ritardo con un’immagine di forza e aggressività. I generali di Myanmar insegnano, gli ayatollah dell’Iran semmai confermano.