Opinioni

Noi, la Chiesa e la realtà digitale. Un solo mondo da vivere

Chiara Giaccardi​ venerdì 25 gennaio 2013
McLuhan, che certo conosceva bene op­portunità e limiti di ogni ambiente me­diale, in una lettera del suo ricco epistolario (og­gi avrebbe usato il web!) affermava che per ca­pire veramente un mondo che cambia sempre più in fretta occorre prenderne le distanze. E non esitava ad affermare: «Ciò è possibile solo a un cristiano». La sintesi paradossale di impe­gno e distacco («nel mondo, ma non del mon­do ») è la postura di cui oggi c’è bisogno, per non rimanere vittime del tecno-pessimismo o del tecno-ottimismo a oltranza, posizioni ugual­mente fallaci.
Per questo, il messaggio del Santo Padre non par­la solo ai fedeli. In un mondo schiacciato sul­l’immanenza, la dittatura del dato di fatto, la dif­ficoltà a stare al passo coi cambiamenti e so­prattutto elaborarne il significato per la nostra vi­ta, lo sguardo della fede si offre a tutti, credenti e non, come una riserva di libertà, che chiede dunque visibilità «nel dibattito pubblico e so­ciale ». Un messaggio, quindi, «cattolico»: indi­rizzato a «tutto l’uomo e tutti gli uomini» (Cari­tas in Veritate, 55), perché capace di rispondere alle preoccupazioni di tutti. Come quella che ri­guarda la realtà oggi: il digitale può dirsi reale? E con quali implicazioni sull’identità, le relazioni, il rapporto col mondo? A questo riguardo viene posto un pun­to fermo, che da qui in avanti va as­sunto come acquisito: «L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani». È «par­te del tessuto stesso della società». Ciò che per gli adulti è ancora in­comprensibile e minaccioso, per le giovani generazioni è la normalità: u­na realtà fatta di materia e informa­zione, atomi e bit. Senza competizio­ne né dualismo tra queste dimensio­ni che concorrono all’unità, così ric­ca, del nostro presente.
Separare ciò che è unito, benché a partire da ti­mori legittimi, rischia di produrre un effetto «diabolico» (dia-ballo, divido) e una fallace esteriorizzazione del pe­ricolo, come esclusivo prodotto del­la tecnologia. Con la tentazione di e­sonero dall’impegno e dalla respon­sabilità, dimenticando la lezione del Vangelo: non ciò che entra, ma «ciò che esce dall’uomo, questo sì conta­mina l’uomo» (Mc 7, 14-23). Anche il «determinismo tecnologico», implicito in tanti discorsi sul web, va superato: la rete ci rende soli, o al con­trario più socievoli; ci rende incapa­ci di concentrazione e pazienza o ef­ficienti multitasker... Niente di tutto ciò. Non si può sottovalutare né il ruo­lo del nostro impegno, né la potenza della Grazia: «La fiducia nella poten­za dell’azione di Dio deve superare sempre ogni sicurezza [ma anche o­gni paura, si può aggiungere] posta sull’utilizzo dei mezzi umani». Le tec­nologie non sono certo neutre.
Ma sono l’impegno, il discernimento, la responsabilità (il modo di «abitare», e non di «usare») che fanno la differenza della presenza cristiana, in un ambiente in cui, in for­me nuove, si esprimono i bisogni di sempre («Lo­ve », amore, è la parola più cercata su Google nel 2012). Dei tanti aspetti del messaggio, così ricco nella sua semplicità, due mi hanno colpito in particolare, data anche la frequenza con cui ri­corrono: il tema dell’apertura e quello dell’unità, nel loro rimando reciproco. L’apertura è già pre­sente nell’analogia della porta: cos’è infatti la porta se non un’interfaccia, un «dispositivo» che mentre separa due ambienti, indicandone la dif­ferenza, contemporaneamente li unisce e ne af­ferma l’unità? Noi siamo gli stessi, in famiglia e sul lavoro, a casa e per strada, nella piazza o sui social network, per quanto ciascuno di questi ambienti possa chiedere forme di presenza di­verse.
La nostra vita è una. Se non lo è, non è cer­to colpa dei tanti contesti che attraversiamo. Aprire implica sia «uscire» che «lasciar entrare». Le porte delle reti sociali diventano allora un’oc­casione in più per far crescere la nostra fede, se dire «Io credo in Dio» ci spinge «a uscire conti­nuamente da noi stessi», portando nella realtà quotidiana la certezza della «presenza di Dio nel­la storia» (dall’Udienza generale dedicata al Cre­do, 23/1).
Significa anche non aver paura dell’alterità: «Bisogna fa sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello». Niente cancelli che dividono, dunque, ma simboli: gli stessi di cui la storia della Chiesa è così ricca. E che sono i segni di una «unione nella differenza» che non intende cancellarla (come si vorrebbe invece nel «regime delle equivalenze» così culturalmente potente oggi) né, però, semplicemente prenderne atto. L’unità della famiglia umana richiede di mantenere aperta la porta della fede, ovvero il nostro legame con Dio sul quale tutti gli altri si fondano. Perché si realizzi anche oggi quanto Rilke auspicava nei suoi «Appunti sulla melodia delle cose»: «L’esperienza ci fa accedere a un’armonia in cui il mondo visibile si trasforma nell’invisibile melodia di uno spazio in cui interno ed esterno, morte e vita, prossimità e lontananza cessano di essere esperienze antitetiche». E, perché no, anche materiale e digitale.