Opinioni

Unità e civiltà. La lezione di Marcello Torre «sindaco gentile»

Antonio Maria Mira venerdì 11 dicembre 2020

«Credo che il momento che attraversiamo debba essere gestito in termini unitari. Nessun partito, per quanto possa essere glorioso, può esprimere l’arroganza di fare tutto da solo. Il momento ci impone di agire tutti quanti uniti per creare una dimensione di sviluppo e di rinascita ». Così il 6 dicembre 1980 diceva in un’intervista a una tv locale Marcello Torre, sindaco di Pagani. Il terribile terremoto del 23 novembre aveva colpito anche il grosso paese del Salernitano. Torre non sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima intervista. Alle 8,15 dell’11 dicembre 1980 le pallottole dei killer della camorra fermarono la sua vita. Poco più di cinque mesi prima, in piena campagna elettorale, aveva scritto.

«Temo per la mia vita. Torno nella lotta soltanto per un nuovo progetto di vita a Pagani. Sogno una Pagani civile e libera». Una breve lettera-testamento alla famiglia che rivela il carattere e i valori di un politico morto per combattere cosche e malapolitica e fortemente convinto della necessità del dialogo e della collaborazione tra tutte le forze politiche, in particolare nei momenti di emergenza. La militanza fin da ragazzo nell’Azione cattolica, della quale fu anche dirigente, poi la Fuci e l’impegno politico nella Dc, oltre a quello professionale come avvocato penalista.

Amico di Aldo Moro, come lo statista ucciso dalle Br fu interprete di una fase politica nuova, la fase del dialogo, della collaborazione, di un’unità da sostenere nei momenti più difficili. L’emergenza, allora, era il terremoto, oggi è la pandemia. Ma quell’invito alla collaborazione «per lo sviluppo e la rinascita » sembra pronunciato oggi. E, purtroppo, anche i rischi che le mafie approfittino di questa fase come fece allora la camorra. Torre lo capì, si oppose, denunciò. E per questo venne fatto uccidere da Raffaele Cutolo. In quella lontana intervista rivendica la scelta dei tecnici che dovevano verificare lo stato degli edifici lesionati. Tecnici del suo Comune, tecnici di cooperative indicati dal Pci, tecnici inviati da fuori regione.

«Sono nomi che non appartengono a una sola parrocchia, ma sono tecnici di tutte le fedi politiche», diceva ancora in quel-l’intervista, decisa per rispondere alle critiche che gli erano arrivate da esponenti del suo stesso partito. Era profondamente convinto della necessità di lavorare tutti insieme. «Gestire bene, in modo unitario, il post terremoto vuol dire non solo ricostruire le case, perché il terremoto non ha solo scoperchiato le case ma anche un metodo di vita, un modo di vivere, un modo di fare politica, un modo di vivere i rapporti tra informazione e potere». Sono passati quarant’anni fa, ma queste parole ancora insegnano una politica vissuta davvero come servizio al bene comune. Le stesse convinzioni di tante altre vittime della violenza mafiosa e terrorista, da Pio La Torre a Piersanti Mattarella: nei momenti più duri, nella lotta contro i nemici più pericolosi, le forze politiche già protagoniste della Resistenza e della Ricostruzione e artefici della Costituzione, devono saper collaborare.

Per resistere e tornare a costruire. Marcello Torre venne ucciso perché aveva ben capito gli affari della camorra sulle rimozioni delle macerie. Lo denunciava e chiamava a raccolta tutti per difendere, nel nome della legalità, la sua comunità. Macerie di 40 anni fa. Anche oggi abbiamo di fronte tante macerie, le stesse che il sindaco di Pagani aveva ben individuato: le macerie di «un modo di vivere». E le sue parole somigliano a quelle di papa Francesco il 27 marzo 2020 sul sagrato di San Pietro.

«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità ». C’è da ricostruire con un 'noi' come Marcello Torre, 'sindaco gentile', stava facendo con determinazione. Un uomo, un padre, un politico da ricordare. Coi fatti. Soprattutto oggi.