Opinioni

L'azione diplomatica sempre più necessaria prima della fine del conflitto. Un salvacondotto umanitario per salvare la Siria dal bagno di sangue finale

Vittorio E. Parsi sabato 16 marzo 2013
N egli ultimi giorni si è rimessa in moto la diplomazia internazionale, alla ricerca di una soluzione negoziata per la crisi siriana. L’obiettivo di questo sforzo è molto chiaro: quello di evitare che il sempre meno aleatorio e distante crollo del regime di Bashar al-Assad sia seguito da un bagno di sangue che potrebbe persino portare a doppiare il numero delle vittime di questa già sanguinosissima guerra civile. Le Cancellerie occidentali stanno infatti cercando 'interlocutori presentabili' tra le file del regime per tentare di produrre una soluzione negoziata, un trapasso di poteri tra il vecchio e il nuovo che non sia battezzato con ulteriori spargimenti di sangue.
È un compito molto difficile da realizzare, a cui arridono poche chance di successo, inutile negarlo. Ma nonostante questo è un tentativo doveroso, perché fino all’ultimo istante bisogna provare e riprovare per far sì che al martoriato popolo siriano non sia inflitto un altro tremendo sacrificio. Oggi il negoziato non ha più per oggetto la mediazione politica tra le parti di un conflitto il cui esito appare già scritto. Oggi è in corso una sorta di 'azione diplomatica umanitaria', per la costruzione di un salvacondotto collettivo per tutta quella parte della società siriana che in questa guerra civile non si è schierata con gli insorti.
Quando la storia di questo conflitto potrà essere scritta, probabilmente si avranno non poche sorprese. Potremmo scoprire che l’appoggio a chi voleva inizialmente riformare il regime per traghettare il Paese verso una maggior democrazia era probabilmente ben maggiore di quello che oggi circonda i ribelli. Emergerà col tempo un fatto che già oggi è più che un sospetto: ovvero che la scelta del regime di radicalizzare lo scontro è riuscita nell’intento di far emergere le frange più estremiste della composita coalizione ribelle, così da spaventare tanti indecisi e mantenerli legati a una tiepida e coatta lealtà alla famiglia Assad. Fedeli freddi, quasi ostaggi, che ora rischiano di non potersi più smarcare dalle scelte omicide che il regime ha operato sopra le loro teste.
Ma sono soprattutto le teste di questi innocenti a essere destinate a rotolare nel fango se una soluzione diversa dalla pura vittoria militare dei ribelli non verrà trovata. Perché una cosa è pressoché certa, i veri responsabili di questa follia che da oltre due anni devasta la Siria, rade al suolo le sue città (a cominciare dalla meravigliosa Aleppo), massacra il suo popolo, quelli si salveranno. E come al solito saranno soprattutto gli innocenti a pagare per colpe che non hanno, per decisioni che non hanno preso, per un passato di cui non sono stati né artefici né complici.
Ovviamente la nostra preoccupazione riguarda anche (ma non soltanto) le sorti della minoranza cristiana della Siria, antichissima e autoctona, che rischia di fare la fine di quella irachena, a distanza di un decennio dalla caduta di Saddam Hussein. È il Medio Oriente nel suo complesso che si sta lentamente 'scristianizzando': e qui l’espressione non ha nulla di metaforico o simbolico ma indica la progressiva espulsione dei cristiani da quelle terre che li hanno visti protagonisti per secoli. Persino in Egitto e in Libano, dove essi rappresentano consistenti minoranze, il loro futuro è tutt’altro che garantito. Come offrire loro tutela senza che questo finisca con l’essere controproducente è una delle grandi questioni che le Cancellerie del mondo dovranno affrontare, prima che sia troppo tardi. E siamo sicuri che rappresenterà una sfida importante anche per il neoeletto Papa Francesco.