Opinioni

Banche, finanza e regole. Un problema, tre mosse

Leonardo Becchetti martedì 16 dicembre 2014
In uno dei passi a mio avviso più significativi del discorso al Parlamento europeo, papa Francesco ha affermato che «Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone». Per ben comprendere questo passaggio basta dare uno sguardo ai nuvoloni neri si addensano all’orizzonte dei mercati finanziari. Il nodo del problema della finanza ipertrofica e disfunzionale sta tutto in un nocciolo duro di banche mondiali “troppo grandi per fallire” che sono cresciute nel sonno dei regolatori. Banche–bische dove la tradizionale attività di credito all’economia reale è sempre meno importante (i prestiti non raggiungono il 40% del totale dell’attivo contro percentuali più elevate nelle banche cooperative che hanno mantenuto la loro missione tradizionale e quasi il 70% nelle banche etiche e solidali della Global Alliance for Banking on Values). Mega banche che usano il sussidio implicito della raccolta dei depositi per finanziare attività di trading proprietario e speculativo con elevati rischi sistemici. Il sussidio implicito, documentato da studi recenti, consiste nel fatto che i mercati “sanno” che le istituzioni tengono alle banche e al loro salvataggio e che, con l’assicurazione dei depositi, i depositanti sono assicurati fino a un determinato ammontare in caso di fallimento della banca. Per via di questi elementi “assicurativi” le banche possono raccogliere denaro dai risparmiatori con i depositi a tassi d’interesse molto bassi. Le banche sistemiche sfruttano questo prezzo sussidiato per poi fare, invece dell’attività bancaria tradizionale, trading proprietario prevalentemente all’insaputa dei depositanti che pensano di finanziare la tradizionale e meno rischiosa attività creditizia. Uno degli aspetti più inquietanti della nuova situazione è che le nuove regole varate dopo la crisi finanziaria fanno molto poco per risolvere il problema. Fissando il fabbisogno di capitale delle banche sul calcolo delle “attività ponderate per il rischio” con le nuove regole di Basilea III (e non usando misure più tradizionali di leva, come rapporto tra capitale proprio e di debito) i regolatori hanno fornito di fatto una serie di scappatoie alle grandi banche. Aumentando le pratiche di cartolarizzazione e le attività fuori bilancio (finanza ombra), usando modelli “interni” di valutazione del rischio e puntando sui titoli pubblici le mega–banche sono riuscite ad “abbellire” i coefficienti calcolati sull’attivo ponderato per il rischio (l’indicatore a cui guardano i regolatori) nonostante la realtà di un indebitamento pesante con un rapporto tra debito e capitale proprio (fino a 20/30) che resta ai livelli preoccupanti pre–crisi.La beffa è che le nuove misure, nate per imparare la lezione di una crisi nata dai derivati e dalle grandi banche, penalizzano chi (come le banche cooperative) fa credito e la crisi non l’ha creata. Casi emblematici di come banche oggi più grandi di intere nazioni possono creare rischi devastanti sono quelli recenti di Irlanda, Islanda e Cipro. In quest’ultimo Paese, le due principali banche erano banche relativamente piccole in Europa, ma in cima alle classifiche europee del rapporto attivo bancario/ Pil essendo la prima superiore a due volte e la seconda una volta al Pil di Cipro. Banche troppo grandi per fallire e per essere regolate, che infatti hanno “catturato” non solo la politica e i regolatori, ma anche i media del proprio Paese, nascondendo i problemi. La crisi è così arrivata “di sorpresa” con conseguenze dolorosissime per i ciprioti che sono stati chiamati a contribuire con una tassa molto elevata sui loro depositi bancari. L’ex governatore della Banca di Cipro, Panicos Demetriades, che ha cercato di risolvere il problema proprio nel momento più acuto della “corsa agli sportelli” ha identificato nella «cattura culturale», cioè nell’influenza esercitata da quelle grandi banche su politica e media, il problema più difficile da estirpare. Le due soluzioni più drastiche al problema sarebbero mettere limiti alla dimensione delle banche sistemiche (che il presidente Usa Barack Obama aveva osato per un attimo proporre all’apice della crisi, accantonando subito dopo la proposta) o separare banca commerciale e banca d’affari, impedendo alla prima il trading proprietario. Se una banca massimizzatrice di profitto non trova coerente col proprio obiettivo dedicarsi alla tradizionale attività bancaria (a basso rendimento e alto rischio), preferendo “fare altro”, allora tanto meglio limitare le sue possibilità di azione all’attività bancaria stessa. Una terza iniziativa nella direzione giusta è una tassa sulle transazioni finanziarie che diventa una tassa sulla velocità e quindi aumenta il costo relativo delle operazioni speculative rispetto all’attività di trading tradizionale.  Ce la faremo a limitare lo squilibrio di poteri tra mega banche e resto del sistema? L’impresa è resa difficile dai dati che ci ricorda Corporate Europe. L’eccesso di potere diventa squilibrio nell’attività di lobbying, con un rapporto di 90 a 1 tra lobbisti del settore finanziario e di altri settori, e di 120 milioni a 2 milioni di euro come soldi spesi ogni anno dalla lobby delle grandi banche internazionale contro quelle della società civile. Difficile pensare che la politica non ne resti condizionata. Solo aumentando la pressione della società civile, essendo consapevoli del problema e vigili sui rischi connessi possiamo farcela. Fondamentale sarà il ruolo dei grandi mezzi d’informazione se sapranno sfuggire alla “cattura”, evitando quanto accaduto prima della crisi di Cipro.