Opinioni

Ripensare lo sviluppo. Un nuovo «modello Milano» per guardare oltre la pandemia

Alessandro Zaccuri giovedì 23 aprile 2020

Fino a un paio di mesi fa non c’erano dubbi: Milano era un modello, non solo una città. Il “modello Milano”, appunto, al quale corrispondeva l’emblema di una città-stato (più di una città, di nuovo) diversa dal resto d’Italia, in parte diversa perfino dal territorio lombardo che la circonda. È una percezione antica, questa dell’eccezione e dell’eccellenza milanese, una persuasione ulteriormente accentuata da quelli che – in uno dei video diffusi via Facebook nelle scorse settimane – il sindaco Beppe Sala ha definito gli «anni d’oro» del dopo Expo. Ma che Milano faccia storia a sé lo sosteneva già Bonvesin de la Riva nel De magnalibus Mediolani, il testo che nel XIII secolo fissa con chiarezza l’archetipo della sovrabbondanza e della perfezione: la circolarità impeccabile della forma urbis, la disponibilità addirittura sfacciata dei beni di consumo, i difetti residuali della scarsa concordia civica e della mancanza di un porto. Carenza, quest’ultima, alla quale avrebbe successivamente cercato di porre rimedio Leonardo da Vinci con il suo sistema di canali navigabili. Quanto alla litigiosità politica, è forse l’unico elemento per cui Milano non è mai riuscita a svincolarsi completamente dalla media nazionale.

Quello dell’altra capitale (morale e industriale, finanziaria e creativa) è il racconto prevalente che la metropoli ha fatto di sé stessa e non è, sia chiaro, un racconto ingiustificato. A ribadirne la legittimità è stato proprio il processo di trasformazione messo in atto da Expo 2015, il più rappresentativo degli eventi che, da allora, si sono susseguiti e moltiplicati, spingendosi dalla cerchia dei Navigli verso quelli che ora si preferisce chiamare “quartieri”, se non addirittura “distretti”. Le vecchie periferie, insomma, ancora ingombre di casermoni e fabbriconi, eppure a loro volta toccate dall’entusiasmo che il modello Milano è stato capace di generare. Del resto, già prima che andasse in scena lo spettacolo di Expo (scintillante nell’immediato, per quanto privo di un’effettiva eredità in termini di contenuti specifici), Milano si era conquistata il ruolo di esemplare polo creativo nell’Atlante delle città allestito nel 2014 dall’urbanista statunitense Paul Knox. In quella sede, era la zona di via Tortona a essere presa in esame, ovvero lo scenario privilegiato del traf- ficatissimo “fuori Salone” (Salone del Mobile, beninteso) attraverso il quale, secondo Knox, Milano affermava il proprio ruolo di «città-regione creativa». Perché l’evento è importante, nessuno ha mai voluto negarlo, ma senza il tessuto operoso della provincia – e delle province – nessun evento si potrebbe mai realizzare.

La «capitale morale», la «metropoli creativa», oggi ha bisogno di ritrovare la memoria straziata, quel dolore che le appartiene da sempre, e di onorarla. Per costruire una comunità diversa È possibile proporre un racconto alternativo, che parta dai più deboli, ma ancora più bello e ancora più milanese

Milano non è mai stata soltanto la capitale dell’happy hour, il problema è che a un certo punto la città stessa ha smesso di opporsi a questa semplificazione. Forse l’ha trovata conveniente, di sicuro l’ha considerata più adatta al racconto predominante del successo un po’ gradasso unito alla conclamata piacevolezza del ritrovarsi insieme. Lavoro ed eventi, di nuovo, con gli eventi che, com’è accaduto in altre parti del mondo, sono diventati per tanti occasione di lavoro. Il modello Milano, in fondo, è stato anche questo: ridurre al minimo le distanze rispetto all’inarrivabile New York (Manhattan è la città-stato per antonomasia, resa in apparenza ancor più inespugnabile dalla sua condizione di isola) per presentarsi come una Francoforte più vivace e soleggiata, come una Parigi meno sussiegosa. Non tutto, negli anni d’oro, ha funzionato secondo le aspettative, ma gli episodici fallimenti non sono mai riusciti a incrinare l’immagine complessiva di uno stile tanto impeccabile quanto efficace, del quale ora la pandemia mette drammaticamente in discussione le premesse. Davvero si può fare di Milano una città dai doppi turni e dagli orari contingentati? E come organizzare un evento, quale che sia, garantendo il necessario rispetto delle distanze di sicurezza?

Verrebbe da rispondere che no, non si può, se il modello è quello che abbiamo descritto fin qui. Ma c’è un’altra Milano che si potrebbe raccontare, un’altra storia a partire dalla quale costruire un progetto nuovo e credibile, nel quale la speranza – virtù difficile, come difficile è ogni virtù – prenda finalmente il posto dell’ottimismo pregiudiziale. Le voci già ci sono, e si fanno sempre più riconoscibili e forti con il passare dei giorni. Vengono dagli ospedali, dagli studi dei medici di base, dalle stanze dei malati. Se fossimo capaci di riunirle in un coro, ci accorgeremmo che appartengono al lato rinnegato e negletto della memoria milanese, ai ricordi troppo a lungo rimossi di questa che è anche, e non da oggi, una capitale del dolore.

All’inizio c’è la pestilenza rievocata da Manzoni nei Promessi sposi (le pestilenze, anzi, perché nell’epidemia del 1630 agisce ancora quella del 1576, il morbo combattuto da san Carlo è come contenuto in quello che suo nipote, il cardinale Federigo, si trova a fronteggiare), ma è nel Novecento che il carico di sofferenza si fa sempre più pesante, fino a risultare intollerabile, fino a essere, da ultimo, rimosso. Bombardata già durante la Prima guerra mondiale e poi, in maniera devastante, nella Seconda, Milano ha pagato un prezzo altissimo negli anni del miracolo economico (quante ferite silenziose nelle case minime dell’immigrazione interna, quanto è costato caro l’obiettivo del benessere...) e più ancora in quelli di piombo, è stata squassata dalle stragi, intere generazioni sono state decimate dall’eroina. C’è un filo di pena repressa che lega l’attentato all’Hotel Diana nel 1921 alla voragine di piazza Fontana, su su fino alla devastazione del grattacielo Pirelli, centrato da un aeroplano nella primavera del 2002. Di questo, solitamente, non si parla tra persone beneducate ed è forse l’amnesia volontaria a rendere ancora più incredibile la cronaca di questi giorni, con la città-stato che all’improvviso si trova presa d’assedio da un contagio messosi in marcia dai margini del suo territorio, da quel «contado» (è, non a caso, l’espressione manzoniana) che ora non appare più estraneo, ma si rivela accomunato da uno stesso destino.

Milano ha bisogno di piani di rinascita, di road map, di riorganizzazione e prevenzione. Prima ancora, ha bisogno di ritrovare questa memoria straziata, e di onorarla. Per raccontare un città diversa, per costruire una comunità capace di salvaguardare tutti, a cominciare dai più deboli, senza lasciarsi distrarre dal miraggio impersonale di un’eccellenza a misura di evento. Un nuovo modello, in definitiva, diverso da quello che abbiamo conosciuto, ma ancora più affidabile, ancora più bello. E, sì, ancora più milanese.