Opinioni

Venezia. Alla Biennale il padiglione della Chiesa è un'opera di misericordia

Alessandro Beltrami domenica 17 marzo 2024

Casa di reclusione femminile Venezia-Giudecca, sala dei colloqui

Quando si chiama in causa l’esperienza estetica, in particolare in relazione al sacro, il più delle volte viene invocata la possibilità di una rivelazione del trascendente, del divino. Ma a che serve contemplare estasiati le Opere di misericordia di Caravaggio a Napoli se poi, usciti dalla cappella, il quadro non ci ha spinto a metterle in pratica? Il Padiglione della Santa Sede alla prossima Biennale di Venezia, presentato lunedì alla stampa, non è una “rappresentazione” attraverso l'arte della sesta delle opere di misericordia, visitare carcerati: è esso stesso opera (in tutti sensi) di misericordia. “Con i miei occhi”, questo il titolo, si pone al momento come un unicum nella storia della Biennale, un caso eccezionale nel panorama delle arti contemporanee ma anche come una delle esperienze più radicali nella riflessione sul rapporto tra arte e sacro, anche se il sacro non è citato esplicitamente mai.

A differenza di tanti discorsi sull'arte spirituale che parla di bellezza, di elevazione, di dimensione ulteriore, questo Padiglione riporta alla vertiginosa orizzontalità dell'esperienza del sacro cristiano. Inutile cercare il volto di Dio in un'icona dipinta se non lo riconosciamo nell’icona vivente dei fratelli: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Papa Francesco, nel discorso agli artisti del giugno scorso, ha detto: «Ricordatevi dei poveri». Forse in molti hanno pensato a un'arte per i poveri, non a un'arte con i poveri. Nel Padiglione della Santa Sede le carcerate sono le protagoniste: e non per innalzarne la dignità, ma perché si riconosce la dignità che esse hanno di per sé. E questo è il sacro cristiano.

È interessante osservare come durante la conferenza stampa nessuno ha parlato di bellezza né tanto meno di bellezza che salva, perché questo progetto non è chiamato a “salvare” nessuno: che siano le detenute, gli artisti o la Chiesa stessa nell'immaginario contemporaneo. La salvezza è un obiettivo che l'arte non si può porre. Quanto si va realizzando nel carcere della Giudecca si pone una meta decisamente ambiziosa. Non si tratta di allestire laboratori artistici con le detenute, ma di restituire attraverso le forme dell’arte l’evento di un incontro reciproco.

In un’epoca in cui tutto esiste solo se scorre su Instagram, “Con i miei occhi” è talmente radicale da escludere ogni esperienza surrogata. Venite e vedrete. Essa, però, non è destinata a consumarsi e morire tra le mura della Casa di detenzione della Giudecca, ma a propagarsi nella memoria e nel vissuto di chi c'è stato, e nelle sue parole. I testimoni daranno ragione di ciò che hanno visto. È quasi stupefacente osservare quanta esperienza evangelica e tradizione cristiana c’è in un progetto così fuori dagli schemi abitudinari del pensare ecclesiale.

Ecco, se questo progetto insegna qualcosa al tanto dibattuto tema dell'incontro tra Chiesa e arti contemporanee (metonimia della riappacificazione tra Chiesa e tempo presente al cuore del Concilio Vaticano II), è che questo non avverrà per un compromesso stipulato attorno a un tavolo negoziale ma come una cessione di reciproca sovranità nella logica del servizio e per un vantaggio comune più alto. E che il suo frutto non sarà un “prodotto”, ma la generazione di nuovi incontri, la configurazione di spazi e tempi inediti disponibili a tutti.