Opinioni

Il «ponte spezzato» da ricostruire. Un giusto per Aleppo

Andrea Riccardi lunedì 11 maggio 2015
Su Aleppo non ci sono novità, se non negative. La città è un ammasso di rovine: divisa in due, come una Berlino d’Oriente. Non è un muro a dividere le due parti, ma la frontiera mobile della violenza che si sposta sotto le pressioni contrastanti dei governativi e della composita "opposizione": «Ribelli e lealisti sono così vicini che si insultano mentre si sparano», testimonia un libro di Francesca Borri, che è stata sui luoghi. La città muore sotto i feroci bombardamenti: i terrificanti bidoni governativi che cadono dal cielo o i missili dei guerriglieri. In mezzo c’è un popolo intrappolato, in queste condizioni dal 2012. Chi può fugge. I cristiani lasciano la città. Si smarrisce per sempre il carattere di "luogo della convivenza", tipico di Aleppo per tanti secoli. Aleppo era un "ponte", tra Oriente e Occidente, tra mondi: un monumento umano sulla Via della Seta. Tanti passavano per qui - da Alessandro Magno ai mercanti di tutti i secoli - sulla via che congiungeva mondi diversi. La cittadella, dall’alto, sembrava custodire un’imponente stratificazione di civiltà, che aveva creato uno "spirito di Aleppo", dolce, tollerante, attivo, capace di mediare tra civiltà e realizzare incontri inediti. Ora tutto è in frantumi.Povera Aleppo! Che rimane? Ricordo nel 1986, il vescovo melkita Edelby, che era stato padre conciliare: mi conduceva per le vie del quartiere cristiano spiegandomi angolo dopo angolo, le tante chiese: una diversa dall’altra, ma in pace tra loro. È morto da anni. La vita gli ha risparmiato di vedere la distruzione della sua città e la sua bella cattedrale sventrata. Mi portò a visitare il palazzo degli Antaki, un’antica famiglia cristiana: uno scrigno di arte, un pezzo di storia. Ho incontrato, recentemente, una giovane Antaki che lavorava in un campo di rifugiati siriani in Libano. Portava qualcosa della grazia di Aleppo. Questa città, durante la prima guerra mondiale, aveva salvato tanti armeni perseguitati. Ora la rovina dell’antica cattedrale ne è l’emblema. E non sono solo le strade e i monumenti a essere colpiti. Poveri bambini, a scuola sotto le bombe. E quanto dolore nascosto, sopportato dagli aleppini di tutte le religioni, che ormai non si chiedono più quale sarà il loro futuro: basta sopravvivere per il giorno dopo. Sì, povera Aleppo!Dieci mesi fa, ho lanciato un appello per Aleppo, che ha ricevuto tante adesioni: creiamo una zona di non combattimento attorno a Aleppo! Bisogna salvare la città. L’inviato dell’Onu l’ha fatto proprio. Ma tutto sembra fermo. Il possibile diventa impossibile. Niente si muove. Le forze in campo sono prese da logiche bellicose (piccole ma tremende).I grandi Paesi giocano la loro partita a scacchi sulla Siria, senza il coraggio dell’umanità, che li avrebbe riscattati da tanti errori. Impietriti nelle loro politiche, non hanno l’audacia e la generosità di un’iniziativa, che sottrarrebbe la seconda più importante città della Siria alla fine. Continua qualche stanca liturgia onusiana e internazionale. Ma c’è fretta! Le ore di Aleppo non rimangono molte. Si sa quale sarà il futuro. Quali i passaggi per arrivarci non è chiaro: cedimento dei governativi o vittoria delle opposizioni o del sedicente califfato o infine stallo logorante? Che importa? Intanto gli aleppini muoiono con la loro città. Con loro però muore la credibilità di tanti Paesi e della comunità internazionale. Possibile che non si sia trovato un governo, capace di prendere in mano questa matassa aggrovigliata, realizzando un’iniziativa generosa, capace di spaccare la catena di morte? Ogni Paese ha i suoi problemi e le sue crisi più vicine. Ma Aleppo è questione d’umanità. E da un punto bisogna pur partire per risolvere questa guerra... Come non ringraziare questo giornale coraggioso, "Avvenire", e il suo direttore, per aver ricordato ad alta voce che Aleppo esiste ancora e può salvarsi? Ogni tanto parlo per telefono con un amico aleppino e gli racconto gli sforzi per la sua città. Qualche tempo fa, mi ascoltava con un filo di speranza. Oggi dice: «Qui non cambia niente, e va tutto peggio». Sento, imbarazzato, che ha ragione. Questa città era un ponte tra mondi. Il ponte è spezzato. È logico che lo distrugga chi vuole la guerra di religione. Ma lasciarlo cadere è assurdo per chi crede in un mondo di convivenza. La morte di Aleppo è una vergogna. Bisogna fare un salto d’iniziativa, e in fretta: salvare Aleppo. Com’è possibile che non ci sia la possibilità di un’azione? Che non ci sia un governo, un uomo di Stato, capace di innescare questo processo?