Opinioni

Morte di un giovane, riflessione dell’arcivescovo di Napoli. Un dovere comune nel nome di Ciro

Crescenzio Sepe sabato 28 giugno 2014
Quando muore un giovane di 30 anni, muore sempre una parte della città, perché viene a mancare un tratto della sua giovinezza. E quando una vita, come quella di Ciro Esposito, è recisa dalla violenza ciò che resta è un dolore cupo che sembra sbarrare le porte a ogni tipo di speranza. Napoli porta ancora una volta il segno di una tragedia. Per antica e amara consuetudine a noi, come comunità cittadina, tocca sempre imparare dalle tragedie: ne abbiamo viste tante, è piena la nostra storia. Ma poi viene il momento in cui anche a Napoli è chiesto non solo di imparare ma anche di insegnare dalle tragedie. E oggi il sacrificio di un giovane di Scampia, di Ciro Esposito, 30 anni, un lavoro onesto come la sua passione per la squadra della sua città, ci dice che questo momento è arrivato. Infatti, Ciro può continuare a vivere solo aiutandoci a rendere forte, autentico e senza appello il ripudio di ciò che lo ha condotto alla morte: la violenza. Non solo quella sportiva, ma quella che si nutre dell’odio verso l’altro, della contrapposizione spinta oltre il limite dell’umano. Le lacrime che tutti insieme, familiari, parenti, amici e semplici cittadini mossi dalla pietà per una giovane vita falciata alla radice, versiamo in questo momento di dolore reclamano anche il diritto e la dignità di non finire sprecate in un terreno arido, capace solo di renderle vane. La nostra sofferenza, allo stesso modo della lunga agonia di Ciro, non può e non deve restare senza frutto. Nelle nostre lacrime e nel sacrificio di Ciro deve annegare, fino a soffocare senza mai più ritornare a galla, il mostro di una violenza costruita su rapporti avvelenati e, a volte, crudelmente manipolati. Com’è possibile, viene da chiedersi, che il confine tra una sana competizione sportiva e lo scontro spesso cruento e feroce – portato non solo negli stadi o nelle sue vicinanze, ma esteso anche a molte piazze – sia diventato così sottile? Quali sporchi o inconfessabili interessi, quali folli ideologie, quali insane passioni si affollano come traditori alle spalle dei più indifesi? C’è di fronte a noi, oggi, il dolore: forte, forse implacabile, soprattutto per i genitori, ma con non minore intensità è necessario fare largo, proprio in questo momento, a un senso di responsabilità, che non è una resa, ma al contrario è la risposta più forte e più giusta che il sacrificio di Ciro merita e che Napoli è chiamata a esercitare non solo per se stessa. Ecco: è arrivato, ed è proprio questo, il momento in cui alla tragedia ritornata a bussare impietosa alle nostre porte occorre rispondere con un atto di coraggio estremo; con una testimonianza che valga come insegnamento per tutti: mai più violenza, mai più lacrime, come quelle che accompagnano oggi il sacrificio di Ciro. Lui stesso, attraverso l’atteggiamento responsabile e composto dei suoi familiari, che per primi hanno bandito la parola vendetta, ci ha indicato la strada. Ma da Napoli e dal sacrificio di un suo giovane, non può partire solo un appello parziale rivolto a una parte o all’altra delle cosiddette tifoserie. Pur nella tragedia le testimonianze di Napoli hanno sempre, alle spalle, il respiro della sua grande storia. Questo nome così napoletano – Ciro Esposito – ha in sé l’identità forte per porsi a simbolo di un messaggio del tutto alternativo alla tragedia di cui un giovane uomo è rimasto vittima. Il messaggio di un totale e irrevocabile ripudio della violenza e dell’inizio di una pacificazione che parte proprio dal sacrificio di Ciro e dal nostro dolore. Abbiamo necessità di dare un senso all’uno e all’altro. Non possiamo accontentarci di aver dato in qualche modo il nostro tributo a un giovane caduto vittima della violenza. Non era certamente questo ciò che lui cercava. Nel suo nome abbiamo oggi il dovere di percorrere la strada della pacificazione.