Opinioni

Tecnologia e regole. I giganti della Rete sotto attacco. Finalmente

Massimo Calvi giovedì 29 marzo 2018

Non tira una bella aria dalle parti della Silicon Valley e il cielo si è fatto cupo sui giganti tecnologici della nostra epoca. Forse non sarà un redde rationem, un giorno del giudizio, ma è possibile che per l’economia digitale stia per aprirsi una nuova fase: quella in cui le imprese più innovative di internet cessano di avere campo totalmente libero in virtù del progresso che prefigurano, e i consumatori incominciano a scorgere oltre ai tanti vantaggi anche il lato oscuro dell’innovazione.

I segnali che attorno a realtà come Facebook, Google, Amazon, e a tutto l’universo delle app che hanno cambiato la nostra vita, stia per iniziare una sorta di "secondo tempo", di ripensamento e di ribilanciamento, sono molti. Quello più significativo è legato al mercato: in poco più di due settimane, dallo scandalo dei dati degli utenti Facebook usati in modo fraudolento per fini elettorali dalla società Cambridge Analytica, il titolo del social network più diffuso al mondo ha perso a Wall Street 80 miliardi di dollari, mentre il suo fondatore, Mark Zuckerberg, è diventato più "povero" di 14 miliardi. È per questo che Facebook ha annunciato che aiuterà gli utenti a proteggere meglio la loro privacy. È solo un annuncio, e d’altra parte anche i prezzi in Borsa sono mobili per definizione. Tuttavia la pressione sull’economia digitale cresce ogni giorno e non sembra fermarsi. Anche Amazon è stata messa sotto pressione dagli investitori dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha parlato di possibili regole per limitarne lo strapotere nel commercio online.

Le ragioni delle critiche sono racchiuse in una sigla, come piace agli americani, che richiama la parte del cattivo: Baadd, cioè Big (grande), Anti competitive (anti concorrenza), Addictive (che crea dipendenza) e Destructive to Democracy (distruttivo per la democrazia).I problemi causati dai giganti di internet sono noti da tempo, e non da ora si discute dell’opportunità di limitarne il potere. Tuttavia è stato necessario rendersi conto che un sistema di regole ispirato al Far West può produrre effetti negativi per la democrazia perché qualcosa incominciasse a cambiare. Difficile dire se ci sarà una trasformazione, ma lo scandalo se non altro ha spinto gli americani a guardare con un occhio diverso al problema dei dati personali: negli Stati Uniti la popolazione non ha mai sperimentato veramente forme di controllo pervasivo come è avvenuto in Europa con il fascismo, il nazismo o i regimi comunisti dell’Est, e il tema della privacy, che pure è nato negli Usa, non è mai stato in testa ai pensieri dei consumatori, sempre ben disposti a cedere informazioni relative a se stessi in cambio di buoni sconto o servizi gratuiti. Il Grande Fratello orwelliano è più un incubo europeo.

L’ondata critica verso il mondo autoreferenziale delle imprese hi-tech di internet, a dire il vero, parte da più lontano. Il dito che a inizio 2018 è stato puntato contro la Apple, accusata da alcuni fondi di investimento di produrre smartphone che creano dipendenza senza riflettere sulle possibili contromisure, può essere visto come il segnale di un’inversione di tendenza anche culturale. È vero, buona parte delle accuse di questo tipo giunge da manager che hanno cambiato casacca o sono interessati a sviluppare business alternativi in nome di un uso etico della tecnologia, eppure anche questo è indice di una mutazione in corso. Un caso che può essere accostato a questa riflessione chiama in causa Uber e il tragico incidente che ha interessato un veicolo a guida autonoma dell’azienda e costato la vita a una donna che attraversava la strada. Qualche osservatore ha fatto notare che a dover essere messo in discussione non è tanto un sistema tecnologico, quanto un modello di business che grazie a un’applicazione permette di ottenere servizi a costo inferiore rispetto al mercato con l’obiettivo di eliminare la concorrenza e tendere al monopolio.

Il vento che sta attraversando la Silicon Valley può aiutare a spazzare via miti e dogmi di vario genere che hanno accompagnato la crescita dell’innovazione digitale negli ultimi anni. Si pensi al fenomeno del car-sharing e alle app che permettono di condividere le auto: promettevano di ridurre il traffico e i veicoli in circolazione nelle città, ma diversi studi dimostrano che con la loro introduzione gli spostamenti in auto, la congestione e lo smog aumentano perché il basso prezzo associato a una tecnologia smart ha reso meno appetibili i mezzi pubblici. La questione del monopolio e della restrizione della concorrenza, per soggetti che controllano anche l’infrastruttura di internet, resta il tema centrale. Il 90% delle ricerche sul Web passa da Google, il 99% dei sistemi operativi per smartphone sono di Google e Apple, il 95% di giovani adulti si connette ai social con prodotti di Facebook, il 75% delle vendite di libri elettronici transita da Amazon. Al confronto, ha fatto notare il 'Wall Street Journal', colossi del passato come Standard Oil e AT&T, che dominavano l’80% dei rispettivi mercati e per questo vennero 'smontati', erano soggetti meno dominanti. Oggi viviamo più comodamente grazie ai colossi digitali, abbiamo una percezione positiva e non opprimente della loro presenza, ma che innovazione abbiamo perso a causa del loro potere? E che cosa perderemo?

Tutela della privacy, democrazia, concorrenza, qualità della vita e delle relazioni, ma anche questioni fiscali: è come se i nodi irrisolti dei big della rete stessero venendo al pettine tutti insieme e nello stesso momento. I mercati temono che questa ondata critica possa dare avvio a una fase regolatoria capace di limitare i profitti dell’hi-tech. Ma anche che la crisi di reputazione di alcune realtà possa generare una fuga degli utenti, amplificare i problemi e scatenare un effetto domino. C’è invece una grande opportunità da cogliere, e riguarda le persone, i cittadini, i consumatori, non solo la politica e i regolatori: prendere atto che vi è molto di buono nella tecnologia che conosciamo, ma che allo stesso tempo l’architettura con cui è progettata è in grado di generare effetti inattesi e non sempre positivi. E per questo si deve correggere il tiro. Abbiamo imparato che i servizi gratuiti possono avere un costo elevato per la libertà, che una piattaforma usata da tutti può farci perdere qualcosa che rimpiangeremo, che un’applicazione comoda e geniale può finire per peggiorare la vita privandoci col tempo delle alternative. Se il secondo tempo dell’economia di internet può iniziare dipende solo da noi.