Opinioni

Ucraina. Biden ora fa i conti dell’alleanza. E c’è ormai chi pensa alla «exit strategy»

Fabio Carminati venerdì 23 dicembre 2022

Volodymyr Zelenskyy a Washington con Joe Biden

Vendere come un successo una mezza sconfitta fa parte degli insegnamenti della politica “old school”. Che Volodymyr Zelensky ha imparato alla sventa in dieci mesi di guerra e di puntuali messaggi alla nazione quotidiani. Qualche giorno fa sui social media, il braccio destro del presidente ucraino, Mykhailo Podolyak, senza (va ammesso) non poca ironia, aveva postato un messaggio intitolato «La mia lista dei desideri per Natale»: indicava, come in una sorta di lista della spesa per l’amico presidente, cinque sistemi di arma di cui Kiev avrebbe più urgentemente bisogno.

Ma quattro di questi – compresi carri armati di ultima generazione e missili a lungo raggio – sono stati negati, mentre nel nuovo pacchetto da 1,8 miliardi, che Joe Biden ha annunciato mercoledì, sono stati inclusi soltanto i Patriot: un costosissimo (nonostante appartenente alla generazione degli anni Ottanta) sistema di difesa anti-missile. Ogni vettore, tutto compreso, ha un costo che si avvicina al milione di dollari. E per addestrare un militare all’uso ci vogliono almeno cinque settimane.

Questo apre parecchi interrogativi sul (di cui sopra) successo: non prima di febbraio, quando Putin potrebbe scatenare la seconda ondata dell’invasione, potranno essere operativi. Inoltre, ragione vuole che verranno impiegati solo contro vettori di “valore” come i cruise. Lasciando per inevitabili gli effetti degli imprendibili Kalibr ipersonici. Mentre è ridicolo sprecarli contro droni iraniani che costano poco più di una berlina tedesca. Così l’utilità di quanto porta a casa Zelensky nel sacco natalizio è relativa.

Lasciando al tempo stesso Biden alle prese con un Congresso che tra poche settimane cambierà gli equilibri, e che potrebbe non condurre in porto il piano da 47 miliardi di dollari di nuovi aiuti per l'Ucraina. Il capo della Casa Bianca deve inoltre fare i conti con un fronte interno che vede lo spettro della recessione; lo stesso crivello che angoscia il fedele alleato Rishi Sunak che a Londra ha chiesto una revisione dei costi della guerra.

Per questo il tema della «pace giusta» è stato il perno attorno al quale avrebbe ruotato tutta la discussione tra i due leader, secondo i bene informati. E se l’intransigenza ucraina a qualsiasi concessione diversa dalla vittoria è forse una speranza, nei fatti Zelensky sa però che la sua gente non gli perdonerebbe qualsiasi cosa di meno. Perché il prezzo pagato è altissimo: di uomini, donne, bambini. Di città sventrate dai missili dell’artiglieria dell’Armata Rossa. Però, proprio su questo punto il dibattito tra i consiglieri del presidente americano è acceso. Nessuno ormai può negare che all’interno dell’Amministrazione americana sia in stato avanzato un dibattito sulle possibili vie di uscita, quelle che elegantemente si definiscono «exit strategy», ma che nei fatti sono costellate comunque di rinunce.

Le scuole di pensiero si dividono tra quanti si rifanno al piano di pace proposto da Zelensky circa un mese fa e che comprende il ritiro delle truppe russe da tutti i territori ucraini occupati, compresa la Crimea e le aree del Donbass invase già nel 2014. E chi invece vorrebbe un ripiegamento russo dal Donbass ma non dalla Crimea. Dalla teoria alla pratica la distanza appare però siderale: i russi sono attestati sulla linea del Dnepr, gli ucraini a loro volta sono fermi e non possono avanzare. In mezzo c’è l’inverno: due, tre al massimo mesi nei quali non ci si muove. Poi per la pace sarà tempo di affacciarsi solo per capire di dover tornare nel letargo dove ancor oggi giace.