Opinioni

Il rischio guerra e l'Europa. Nella Penisola arabica ci sono troppe armi. Ecco perché

Raul Caruso martedì 10 ottobre 2017

Nella vicina Penisola arabica, una nuova e dirompente crisi diplomatica è scoppiata negli ultimi mesi. L’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto alcuni mesi fa hanno imposto un blocco navale e aereo oltre a un embargo al Qatar. Il piccolo stato (meno di 3 milioni di persone) è per molti aspetti una nazione chiave nello scacchiere mediorientale. Potendo disporre di ingenti riserve di petrolio e gas naturale è stabilmente tra i Paesi più ricchi al mondo se si guarda al reddito pro capite, ed è divenuto famoso in questi ultimi anni anche grazie al network televisivo Al Jazeera. La sua influenza dal punto di vista politico è sostanziale. Basti pensare che ospita sia l’unico ufficio politico dei Talebani a Doha sia la grande base militare americana di Al Udeid. In questo caso, il Qatar è 'accusato' di avere legami con il terrorismo islamista, con i fratelli musulmani e di essere troppo amichevole con l’Iran sciita oltre ad avere una cooperazione militare con la Turchia di Erdogan. In seguito a queste accuse il Qatar non ha risposto positivamente a una lista di condizioni dettate dall’Arabia Saudita e i suoi alleati, di conseguenza la crisi e le restrizioni sono destinate a durare.

Dal punto di vista economico l’isolamento sarà in ogni caso inefficace. La piccola monarchia qatariota, infatti, nell’area gode del sostegno di Iran e Turchia e comunque altri Paesi non hanno seguito la linea tracciata dai sauditi. Il vicino Oman, ad esempio, ha garantito la possibilità di transito per le navi qatariote. Pertanto, pur in presenza di costi di aggiustamento elevati, la piccola monarchia del golfo non dovrebbe soffrire in maniera significativa dell’isolamento imposto. Ma al di là dell’efficacia dell’embargo e del blocco, la crisi è comunque realmente preoccupante. Il dato di fondo da tenere presente è che è in atto un’evidente corsa agli armamenti nell’area del golfo. Il Qatar ha intrapreso una politica di rafforzamento militare testimoniata dal vertiginoso aumento delle importazioni di armi convenzionali (+6.880% tra il 2010 e il 2016). Solo negli ultimi mesi, inoltre, ha chiuso nuovi contratti per rafforzare marina e aviazione. In particolare i qatarioti hanno siglato contratti con l’italiana Fincantieri per la fornitura di sette navi da superficie, con i francesi per 24 aerei da caccia Dassault Rafale, con l’americana Boeing per la fornitura di caccia F-15 e una lettera di intenti con l’inglese Bae per di 24 Eurofighter Typhoon.

L'Arabia Saudita, d’altro canto, negli ultimi anni è entrata stabilmente tra i primi cinque Paesi al mondo per spese militari (le importazioni di armi convenzionali sono aumentate del 1.200% tra il 2010 e il 2016) e non sembra volersi fermare in questa sua politica di rafforzamento militare. La visita di Donald Trump a Riad nello scorso maggio è stata l’occasione per discutere di ulteriori forniture militari per diversi miliardi di dollari. Proprio nei giorni scorsi il governo americano ha approvato la vendita all’Arabia del sistema di difesa missilistico Thaad, per 15 miliardi di dollari. Nel contempo i sauditi hanno concluso un accordo anche con la Cina per la localizzazione di una fabbrica di droni militari nel regno saudita. E proseguono speditamente i colloqui anche con Mosca per la fornitura di missili antiaereo S-400. Nella Penisola, peraltro, anche gli Emirati Arabi Uniti hanno significativamente aumentato le importazioni di armamenti (+1.285% tra il 2010 e il 2016) e così anche il Bahrein seppur in misura minore (+120% tra il 2010 e il 2016). La tensione non è quindi destinata a essere solo diplomatica. La probabilità che nei prossimi mesi o anni si apra un nuovo conflitto armato è decisamente elevata.

A dispetto dei luoghi comuni e delle false credenze in merito all’idea di deterrenza, infatti, le corse agli armamenti purtroppo creano instabilità e sfociano spesso in conflitti cruenti e sanguinosi. In sintesi, nonostante i manager e gli azionisti delle imprese militari abbiano stappato buone bottiglie di champagne, questa è una pessima notizia per i Paesi europei. In caso di un nuovo conflitto aperto, l’Europa e in particolare le nazioni che affacciano sul Mediterraneo saranno i primi a 'pagare' un prezzo elevato. Se un nuovo conflitto armato dovesse scoppiare nella penisola arabica, infatti, la diffusione dell’instabilità sarebbe molto più profonda di quella attuale. La guerra civile in Yemen ha già determinato una catastrofe umanitaria con milioni di persone bisognose di assistenza e un nuovo fronte non farebbe che acuire tale scenario. In breve, l’esacerbarsi del conflitto tra le monarchie sunnite potrebbe generare una pressione sostanziale sui Paesi europei in primis ma anche sull’intera comunità internazionale.

Vi è poi un costo 'indiretto' meno palese ma non meno rilevante. Esso si potrebbe definire in parole semplici come la perdita di un interlocutore per l’Unione Europea. Le monarchie del Golfo, infatti, avevano creato nel 1981 il Consiglio di cooperazione dei Paesi del Golfo (Gcc), considerata l’istituzione che in futuro avrebbe dovuto guidare una progressiva integrazione della penisola secondo un modello molto simile a quello dell’Unione Europea. La crisi in atto – de facto – ha seriamente minato il ruolo se non l’esistenza stessa del Gcc. L’Unione Europea dal 1988 aveva cominciato un dialogo bilaterale con il Consiglio, che a questo punto sembra vanificato. In breve, i rapporti tra i Paesi europei e i Paesi del Golfo continueranno a basarsi principalmente su una rete di relazioni bilaterali. In parole più semplici, l’assenza di un interlocutore unico diminuirà gli incentivi per i governi europei a convergere su una politica estera comune nei confronti dei Paesi dell’area.

La preoccupazione in merito alle ricadute sull’Unione è confermata dal fatto che l’alto rappresentante per la Politica Estera Federica Mogherini nello scorso luglio è andata in visita in Kuwait per offrire la mediazione europea per la risoluzione della crisi. L’Unione Europea comunque avrebbe l’opzione di compiere un gesto unilaterale realmente costitutivo di una nuova fase della politica estera europea: al fine di non contribuire a future crisi umanitarie dovrebbe limitare – se non cancellare – le esportazioni militari nei confronti dei Paesi del Golfo in linea peraltro con il trattato Att ratificato da tutte le nazioni Ue. Sarebbe davvero un passo in avanti per l’Unione ma sfortunatamente il banchetto pantagruelico al quale si sono sedute molte imprese militari europee sembra troppo allettante per rinunciarvi.