Opinioni

Un triste film capolavoro, la vita (con l'Alzheimer) di due persone semplici. Storia di Orizia e di Antonio: l’«Amour» che non cede

Massimiliano Castellani domenica 31 marzo 2013
«Questo è un Paese che ha smarrito la memoria da un pezzo». Quest’immagine pessimistica , ipotetica, ma purtroppo anche molto reale, la evochiamo e la sentiamo evocare a diverso proposito un giorno sì e l’altro pure. Ma la maggior parte di noi non immagina neanche la sofferenza che si prova davanti a una persona che la memoria l’ha persa davvero. Non si può capire se non si prova sulla propria pelle lo smarrimento di chi vive al fianco di una persona che è affetta da Alzheimer. La memoria di mia zia Orizia da più di dieci anni è come una lavagna lavata da un pioggia torrenziale, costante, che le ha portato via i ricordi, ha spento la luce e l’ha lasciata al buio. È tornata una bambina che ogni attimo, dalla mattina al risveglio alla sera quando va a dormire, ha bisogno di aiuto, di una mano che la imbocchi, che la stringa e che non la faccia cadere. Quella mano calda e sempre stretta alla sua la trova in mio zio Antonio, un ex ferroviere che prova a viaggiare ancora sul convoglio dei ricordi, ma sempre e solo assieme a lei, con Orizia, l’amore di una vita. Stanno assieme da più di sessant’anni, hanno messo al mondo tre figli, da cui sono nati nipoti e pronipoti, e ne avrebbero di cose da ricordare, ma lei adesso fa fatica anche a pronunciare il nome di Antonio. Sorride, dolce come una bimba davanti al padre, quando lui l’accarezza e le racconta che anche stamattina è uscito con l’auto – mio zio ha 88 anni – per andare a fare la spesa e baciandola sulla fronte le dice con gioia che ha trovato quella cioccolata che le piace tanto. «E zia in quei momenti sembra capire…», dice Antonio che continua a raccontarle della vita fuori, della primavera che sta per arrivare e le ripete tutti i santi giorni che «l’importante è che noi stiamo ancora insieme, Oriziè». Ho visto da poco il film Amour di Michel Haneke, un capolavoro senza dubbio, oltre all’Oscar credo che sia stata una delle opere più premiate dell’ultimo decennio. Non c’è scena di quel film, dedicato ad Anne (Emmanuelle Riva), pianista, donna affascinante della borghesia parigina, colpita da Alzheimer e a suo marito, l’intellettuale George ( Jean Louis Trintingnant), che l’accudisce, che non mi abbia commosso fino alle lacrime e fatto pensare ai miei zii, ma anche a tutte le persone nella loro stessa condizione. L’amour è lo stesso, intenso, sincero, dolce e disperato, cambia il contesto sociale, ma la malattia, come la morte, è talmente democratica da non fare sconti a nessuno, poveri o ricchi, dottori o analfabeti. Non si scampa. Considerazione amara, come il finale del film che però è assai diverso da quello della vicenda dei miei zii e che merita un supplemento di riflessione. Storie d’amore come quelle di due persone semplici, un tempo si sarebbe detto 'del popolo', come Orizia e Antonio, non finiscono quasi mai sul grande schermo e non creano dibattito sulle pagine dei giornali. Ebbene, chi Amour non l’ha visto deve sapere che George, alla fine, in preda a un raptus uccide il suo amore: soffoca la moglie Anne con un cuscino. Antonio, e come lui chissà quanti altri mariti, se una mattina si svegliasse e non avesse più a fianco il suo amore si sentirebbe un uomo perso, finito. «Finché Orizia starà con me sarò felice e non le farò mancare niente», va ripetendo. E in questo caso non si tratta solo di spirito cristiano: mio zio è un vecchio e onesto comunista, con una fede incrollabile nell’amore. Per lui prima di tutto viene il rispetto assoluto per quella promessa fatta tanti anni fa a lei, sull’altare, davanti a un prete: «Finché morte non ci separi». Una promessa confermata ogni giorno, a ogni respiro condiviso, mano nella mano. Il giorno di San Valentino, Antonio ha chiamato mia madre per parlare un po’ di ciò che vive e per dirle: «Comunque, io a Orizia la rosa gliel’ho comprata anche quest’anno…».