Opinioni

Nel convento di Santa Maria al Monte dei Cappuccini a Torino. Tra i frati dove convivono fame di Dio e fame di pane

Gian Mario Ricciardi giovedì 11 agosto 2016
La strada, sopra il Po, a Torino, lentamente svela il Monte dei Cappuccini. A pochi metri il traffico e i rumori di un mondo frenetico. Oltre gli alberi invece, nella penombra della sera, persone in coda se ne vanno con un panino. È così, praticamente da sempre. Molto prima che l’ondata migratoria riversasse sulla città tanta gente in cerca di lavoro e dignità. L’hanno voluta i frati quando la crisi non era così brutta ed infinita. E chi non ha niente, quando scende alle stazioni di Porta Nuova e Porta Susa, lo sa che in fondo a piazza Vittorio, salendo alla sinistra della Gran Madre, si arriva alla porta del convento di Santa Maria, al Monte dei Cappuccini. Qui fame di Dio e fame di pane convivono. Nel chiostro e nella Chiesa, dal cui sagrato si coglie la cartolina della città dall’alto, i frati (una decina tra i 40 e i 78 anni) vivono la loro giornata che coniuga preghiera (le Lodi alle 6,45, i vespri alla stessa ora, la sera), aiuto concreto e colloqui con chi cerca speranza, inoltre danno da mangiare a chi ha fame.  «Sono – spiega padre Michele che salta da Torino ad Asti, Alessandria, Cuneo – i due volti della vita cristiana. Amare Dio e il prossimo. Da Dio agli altri, dagli altri a Dio». Li accolgono volontari e religiosi con la discrezione e il tatto di chi, su questa collina, ha visto passare tutti i volti della miseria. Prima i poveri di casa, poi, uomini e donne che negli anni novanta-duemila giungevano dai paesi dell’Est (non ancora Europa). Scendevano da autobusfantasma che li lasciavano attorno alla ferrovia, vicino al quartiere San Salvario. E cercavano di sopravvivere. Poi la sera molti salivano sulle pendici della collina per ricavarsi un riparo con nylon e stracci tra gli alberi, senza documenti e senza nulla. Dopo loro i profughi, i richiedenti asilo quando il fenomeno non aveva ancora le dimensioni di oggi. Oggi molti italiani, ancora dai Paesi dell’Est, i pensionati e i separati che non ce la fanno. Lo sportello della solidarietà non ha mai rifiutato a nessuno un piatto caldo quando possibile o cibo per la cena. Un vero miracolo di carità che richiama quello eucaristico. Come racconta padre Pier Maria da Cambiano: «Narra la leggenda che durante il doppio assedio di Torino del 1640, i francesi considerando il Monte strategico abbiano cercato di prenderlo. Non ebbero difficoltà ma, entrati in chiesa per saccheggiarla, una lingua di fuoco si levò per proteggere le ostie consacrate». Lo chiamano “miracolo eucaristico”. È raffigurato in un quadro. Ed è lì da allora, un “segno” emblematico del destino di questo bellissimo scorcio di Torino: il dipinto sotto la volta di una chiesa dove i Savoia avevano la fortezza, luogo regalato da Carlo Emanuele I nel 1581 ai padri cappuccini, a pochi metri la porta che ogni giorno, d’inverno e d’estate, si apre per gli altri. Un porto nella città per chi ha fame di pane, ora per chi ha fame di valori e di Dio. Gente improvvisamente povera fuori, ma anche dentro. Vengono qui a centinaia ai corsi sui dieci comandamenti. «Condivisione nella povertà, i panini come prolungamento della vita di comunità, ma anche un luogo dove nella crisi abbiamo visto crescere spiragli di nuova umanità. Molti vengono a cercare punti di riferimento e percorsi per rinascere alla vita». Padre Michele e i suoi fratelli, con la delicatezza che viene loro dalla tradizione, rispondono ai disagi di ieri, alle povertà di oggi. Vanno anche a trovare gli anziani che muoiono di solitudine e i malati: la nuova emergenza, confermano. La campana scandisce i momenti di pace e preghiera, il campanello quelli del bisogno. E tutto avviene con la semplicità e la sobrietà d’antico stampo. A queste stanze è legata la figura di Sant’Ignazio da Santhià, al secolo Lorenzo Maurizio Belvisotti, proclamato santo da Giovanni Paolo II nel 2002. Dopo essere vissuto in altri conventi del Piemonte, morì qui nel 1770, lasciando una scia di servizi per i poveri e la carità nella Torino che, allora, aveva l’aspetto di una città del Terzo mondo. Una campana ed un campanello, ieri ed oggi, Marta e Maria, mani giunte e l’odore delle pecore: ancora una volta, nella città dei Santi Sociali, l’accoglienza ha i volti di tante associazioni, gruppi, volontari, ma il bagaglio di una spiritualità che viene da molto lontano. E quando chiamano, i frati rispondono sempre. Il popolo che sale al Monte conosce tutti gli angeli che l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha messo sulla e nella città: sa che la Caritas ed il Banco Alimentare stanno facendo uno sforzo gigantesco, sa che nei centri d’ascolto c’è sempre qualcuno, che ci sono la colazione delle suore in via Nizza, le mense al Cottolengo, dai frati minori, di don Adriano e di tanti altri, all’ora di pranzo e della cena, ma sanno anche che le bocche da sfamare sono tante. Ci sono gli immigrati ancora senza permessi di soggiorno, gli italiani smarriti nella crisi, madri con bambini che scappano da situazioni violente, mariti che la separazione ha completamente rovinato, uomini e donne della classe media che la recessione, i tagli, i licenziamenti, la cassa integrazione a valanga hanno gettato in mezzo ad una strada. E il Monte, nella storia fortezza strategica, ora ha tutto il calore di una tenda sul Po per chi non ce l’ha. Sotto, oltre il grande fiume, le auto scorrono veloci tracciando con le luci traiettorie che sembrano strisce di vite, lasciandosi dietro le fatiche di una città che muove i primi passi fuori dal tunnel; sul piazzale dei frati la vita è, molto più semplicemente, una mano che ti regala un panino e un sorriso, prima che alle nove si vada in chiesa a pregare. È l’altra faccia della crisi che tutti e tutto ha piegato e piagato ma ha anche fatto emergere originali slanci di generosità e finestre sui problemi, non sempre e soltanto di pane e companatico, degli italiani. Le porte sono aperte perché c’è chi ha bisogno di raccontare la sua storia che magari sembra simile a quella di tanti altri ma è diversa. I frati passano ore a sentire scorrere i drammi che questi anni di follia consumistica prima e di grande carestia poi hanno provocato nelle persone, soprattutto nelle famiglie.  Nei chiaroscuri di ogni giorno, anche le botte tremende della recessione mondiale possono diventare un’occasione per trovare gente che non ha fretta e si può fermare a chiacchierare come nei cortili di un tempo. Al Monte dei Cappuccini si può. (4 - continua)