Opinioni

La riflessione. Tecnologie al lavoro la prima sfida è etica

Laura Palazzani mercoledì 2 gennaio 2019

Siamo di fronte a considerevoli cambiamenti del lavoro nell’ambito delle nuove tecnologie emergenti e delle trasformazioni sociali in atto. Tali cambiamenti coinvolgono lo stesso significato del lavoro, dell’uomo e della società. Molte le 'predizioni' sull’inevitabile futuro, prossimo e remoto, che ci aspetta: predizione a volte intrise di retorica, in un futuro dove il lavoro non ci sarà più perché verrà sostituito interamente dalle macchine, o forse non ci sarà più nemmeno l’uomo in un futuro tecnologizzato postumano e transumano. È sufficiente leggere i più recenti rapporti sullo stato del lavoro (dall’Oecd nel 2016, il Rapporto McKinsey Global Institute e della International Labour Organisation nel 2017) per rendersi conto delle trasformazioni. Le principali linee di sviluppo riportate nell’era della cosiddetta 'rivoluzione industriale 4.0' sono quelle connesse alla automatizzazione, alla robotica e all’intelligenza artificiale, alle tecnologie digitali e agli algoritmi computerizzati, con ricadute sul piano del lavoro. In particolare sono menzionate la sostituzione di alcuni lavori o compiti (soprattutto quelli ripetitivi), la flessibilizzazione in termini spazio-temporali (con cambiamenti su luoghi e tempi del lavoro), l’aumento del 'lavoro non standard' con lo sviluppo di nuove forme di lavoro 'collaborativo' e 'condiviso' nella ' gig platform economy'.

Ne conseguono nuove opportunità e nuove sfide. Le prime riguardano la possibilità di aumentare la produttività e l’efficienza, nel rapporto costi/benefici, per aiutare a superare possibili barriere di mobilità, riducendo le distanze spaziali e temporali, oltre che migliorare e rendere più efficace la comunicazione. Ma emergono nuovi 'rischi etici', che possono mettere in crisi i valori fondamentali, sui quali si registra – seppur in una società pluralistica – una condivisione in Europa (come mostrano i valori della Carta fondamentale dei diritti umani): pensiamo a dignità umana, autonomia, privacy, giustizia, solidarietà. È questo il tema affrontato dal parere « Future of Work, future of Society » pubblicato il 19 dicembre 2018 dallo « European Group on Ethics in Science and New Technologies », organismo di consulenza del presidente della Commissione Europea. Le nuove tecnologie possono 'de-umanizzare' il lavoro: possono sostituirlo, almeno in alcuni settori o compiti, producendo disoccupazione, ma anche escludendo l’uomo e umiliandolo rispetto alle possibilità di sviluppo delle sue capacità naturali.

Le migliori performances automatizzate e automatiche rischiano di sovrapporsi e superare le attività ritenute tradizionalmente 'umane' (si pensi alle attività di ' artificial care' dei robots nei confronti di persone anziane e disabili). Il lavoro può ridurre l’autonomia aumentando la tendenza alla 'delega tecnologica': affidarle compiti complessi (in particolare a intelligenze artificiali, smart machine o machine learning), porta a diminuire le capacità umane o la fiducia in esse e la perdita di controllo dell’uomo sulle macchine, con difficoltà di interazione con i robots, la diluizione delle responsabilità (tra umano e artificiale) e la 'dipendenza tecnologica'. Il costante monitoraggio e la sorveglianza tecnologica eccessiva e sproporzionata sul lavoratore (come i braccialetti elettronici o i sensori indossabili) al fine di rendere sempre più efficiente il lavoro rischiano di rompere il confine tra vita professionale e vita personale e di trasformare il lavoro in un’attività solo orientata alla quantificazione della produttività, privandola della dimensione di realizzazione personale.

Il lavoro può produrre nuove diseguaglianze o incrementare quelle esistenti: molte persone possono essere lasciate 'fuori' o 'indietro' perché non hanno le abilità (le ' skills') sufficienti, o perché non sono nelle condizioni socio-culturali per a- deguarsi ai nuovi standard tecnico-scientifici di ingresso nel mondo del lavoro, non avendo gli strumenti, la motivazione e le abilità digitali ritenute requisiti indispensabili. Le persone anziane, coloro che hanno meno preparazione e/o provengono da ceti socialmente indigenti, quanti provengono da Paesi in via di sviluppo, le persone con disabilità fisiche e cognitive, sono coloro che possono pagare il prezzo più alto del cosiddetto 'divario digitale'. La flessibilizzazione e fluidificazione del lavoro produce precarietà, dunque nuove vulnerabilità che necessitano nuove politiche solidali di protezione sociale adeguata rispetto ai bisogni emergenti.

Di fronte a queste sfide bisogna ripensare il lavoro, ma soprattutto acquisire sin da oggi la consapevolezza che il futuro del lavoro non è inevitabile, non è un 'destino': abbiamo oggi l’opportunità di cambiare, di orientare lo sviluppo tecnologico e le applicazioni nell’ambito del lavoro, nel rispetto di valori che riteniamo fondamentali per l’uomo, la società, e l’umanità futura. E questo è possibile sensibilizzando i governi ad attuare nuove politiche che sappiano proteggere adeguatamente i cittadini. Le politiche sociali nelle nuove configurazioni del lavoro che si stanno delineando nell’era 4.0 sono eticamente chiamate a garantire a tutti l’accesso a un lavoro dignitoso, che consenta le condizioni oltre che di sicurezza economica anche di realizzazione personale e promozione delle capacità individuali e di contribuzione alla società. Un lavoro che non soffochi la libertà personale ma sappia rispettarla in condizioni di trasparenza e proporziona-lità, ossia con un uso di tecnologie e dati ispirato a criteri di necessità, pertinenza e minimizzazione.

Di particolare rilevanza è la riprogrammazione dell’educazione alle nuove esigenze, sempre ricordando che la formazione non deve essere solo tecnica, orientata all’acquisizione di abilità (' skilling', ' re-skilling', ' up-skilling') per chi è in grado di acquisirle. Si parla spesso di polarizzazione come fenomeno e conseguenza di questo processo: una parola, apparentemente neutra, che nasconde nuove forme di discriminazione, con l’esclusione di coloro che non sono in grado per ragioni cognitive o di indigenza sociale di apprendere le nuove abilità. In questo senso l’educazione non deve essere solo insegnamento tecno-scientifico ma formazione della persona, quale che sia il livello cognitivo o sociale, allo sviluppo delle capacità naturali e intrinseche, incluse anche le capacità critiche nell’uso delle tecnologie. Infine, le politiche devono assicurare un’adeguata protezione sociale, sulla base della giustizia e della solidarietà, con particolare attenzione nei confronti delle persone in condizione di maggiore vulnerabilità. In questo senso andrebbero sollecitate anche tecnologie di inclusione e integrazione nel mondo del lavoro di persone con disabilità. R iflettere sul futuro del lavoro significa riflettere sul presente, sull’uomo e su come vogliamo costruire il futuro nostro e della società in cui viviamo. Abbiamo infatti una responsabilità forte nei confronti delle generazioni presenti e future, nella costruzione di una società inclusiva e non escludente, rispettosa della dignità, dell’autonomia, della privacy, della giustizia e della solidarietà nel mondo del lavoro.

Ordinario di Filosofia del diritto, Lumsa membro dell’European Group on Ethics in Science and new Technologies, Commissione Ue e vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica