Opinioni

Tanto da fare insieme. Noi, i musulmani, i valori cardine

Carlo Cardia martedì 24 novembre 2015

Le manifestazioni di musulmani che a Roma, Milano, e altre città d’Europa, hanno sfilato contro terrorismo e uso della religione per praticare violenza, per affermare che il diritto alla vita è assoluto e va difeso contro chi pretende di negarlo in nome dell’islam, possono costituire l’inizio di un cammino da fare insieme, per costruire una società giusta, affrontare e risolvere dubbi, problemi, rispondere a esigenze reali. Il messaggio del presidente Sergio Mattarella alle manifestazioni esprime l’attenzione e la sensibilità dell’istituzione più alta della Repubblica per una questione che interessa la vita collettiva, la libertà religiosa, un dialogo che prevalga sull’intolleranza, dia un senso alla parola "integrazione" per gli immigrati. Mattarella ha sottolineato la necessità di «non spezzare le reti del vivere insieme», e questo è forse il compito più difficile, e più nobile, da realizzare con il contributo di tutti. Il «vivere insieme» vuol dire riconoscersi nel rispetto della propria identità, nell’accettazione piena dei diritti umani proclamati nel secondo Novecento dopo le più spaventose guerre della modernità, dopo che è stata sperimentata l’umiliazione della dignità umana da parte di totalitarismi che negavano il valore trascendente della persona. Oggi siamo chiamati a rinnovare quel patto scritto con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e ogni religione può recare il suo contributo per dare fondamento spirituale ai valori di libertà e di eguaglianza, di solidarietà verso chiunque abbia bisogno di aiuto.Tutelare «le reti del vivere insieme» implica molte cose. Per i musulmani, vuol dire praticare la fede religiosa rifiutando ogni fondamentalismo, pure indiretto, che possa insinuarsi nelle pieghe delle loro organizzazioni. Per il nostro Paese significa rifiutare ogni tentazione xenofoba e garantire con lealtà, sulla base dei princìpi costituzionali, la libertà religiosa a tutte le comunità di immigrati. Per i musulmani, e altri gruppi etnici e religiosi, vuol dire rispettare i diritti delle persone, a cominciare dalla dignità della donna, contro abitudini e pratiche che vengono dal passato e da concezioni arretrate della famiglia e dei rapporti interpersonali. Non si possono giustificare queste concezioni e pratiche con richiami religiosi privi di fondamento, e comunque in contrasto con l’evoluzione storica degli ordinamenti moderni in tanti campi del vivere civile. Per le nostre istituzioni, vuol dire riconoscere alle comunità musulmane le stesse possibilità, anche giuridiche, che sono previste per le altre comunità. Non si possono negare queste possibilità, come vorrebbero i sostenitori di forme più o meno latenti di razzismo, su una presunzione di arretratezza ontologica dei musulmani rispetto ad altri gruppi religiosi.Nel 2008, dopo un intenso dialogo con le comunità religiose presenti in Italia, su impulso dell’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato venne approvata, e sottoscritta da diverse (ma non tutte) comunità musulmane, la "Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione", che costituisce ancora oggi uno strumento valido nell’ambito delle politiche dell’immigrazione, e figura tra le linee direttrici del ministero dell’Interno. Tra le affermazioni della Carta dei Valori figura l’esclusione di «ogni forma di violenza, o istigazione alla violenza, comunque motivata dalla religione», mentre l’Italia «favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana, e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranza». Si ricorda poi che «l’ordinamento italiano proibisce ogni forma di coercizione e di violenza dentro e fuori la famiglia, e tutela la dignità della donna in tutte le sue manifestazioni e ogni momento della vita associativa». La condivisione di questi princìpi da parte delle comunità islamiche non era scontata, e ha costituito un momento di speranza per proseguire nel cammino dell’integrazione, della costruzione di una società nella quale nessuno si sentisse escluso, e nessuno usasse la religione con finalità aggressive e di prevaricazione. Da allora, purtroppo, il dialogo tra istituzioni e comunità musulmane ha rallentato, così come il dibattito civile e culturale sull’immigrazione s’è impoverito: per serie divisioni tra i gruppi musulmani e per il l’opera di regressione di alcune forze politiche nel valutare i problemi dell’immigrazione.

 

Dobbiamo superare questi limiti, e guarire da questi, riprendere un cammino interrotto, nella consapevolezza che a ognuno spetta fare la sua parte. L’integrazione e l’accettazione di chiunque venga da fuori, saranno tanto più autentiche quanto più si saprà vivere insieme nel rispetto di diritti e valori che sono universali perché diretti a tutelare la dignità della persona. Ma il vivere insieme si arricchirà anche per il contributo che la società, e le nostre istituzioni, sapranno dare perché gli altri non si sentano estranei in un mondo che li rifiuta. Oggi più di ieri sappiamo che l’impegno contro terrorismo e violenza è il presupposto minimo per ogni inizio e di dialogo, e qualsiasi opacità sul punto provoca diffidenza e conflitti. Ma sappiamo anche che ci sono tante cose da fare insieme per dare alla convivenza di valori sul nostro territorio un significato di autenticità, un senso di crescita, di solidarietà, che nella religione può trovare basi più consistenti. Claudio Magris ha ricordato nei giorni scorsi che le comunità islamiche devono scegliere se, per loro, la convivenza interculturale si realizza per loro «nell’incontro, nello scambio, nella frequentazione reciproca» o nell’isolamento. Ha aggiunto che il rispetto dei valori inalienabili, ad esempio la parità di diritti delle donne, è decisivo per la loro integrazione, mentre isolare i propri figli dagli altri giovani, scegliere per loro un ghetto e persino l’antagonismo, vuol dire andare incontro a una sconfitta più ampia: quella di chi non vuole contaminarsi perché ha paura di sé e degli altri. È così.In questo orizzonte, si comprende appieno la scelta strategica di papa Francesco quando chiede di non chiudere le porte, di non serrarsi nel timore e nella diffidenza. Stare insieme significa fare ciò che può migliorare i rapporti e affinare le rispettive identità, vuol dire soprattutto far essiccare le radici dell’ostilità, i semi della violenza, dal cuore e dalla vita quotidiana di chiunque.