Opinioni

Il gran nodo della lentezza burocratica. Tante risposte, seri problemi

Eugenio Fatigante giovedì 14 maggio 2020

Il decreto da 55 miliardi e dai tre nomi (Rilancio, già "Aprile", già "Maggio") per la lunga gestazione segnala uno sforzo più che apprezzabile di estendere un ombrello protettivo sul più ampio numero possibile di lavoratori e di imprese. È un provvedimento-paradosso: voluto per affrontare le urgenze economiche della pandemia, è nato con esasperante lentezza. Poco male, si dirà, l’importante è che ora sussidi, prestiti e somme a fondo perduto giungano a destinazione senza indugi, superando quegli intoppi burocratici che hanno segnato i primi aiuti di marzo, e che tante polemiche e malcontenti hanno generato.

Una domanda sorge prima di tutte: ma è solo un seguito del Cura Italia o è davvero una base per la ripartenza del Paese provato dalle sofferenze da Covid-19, come il nome altisonante farebbe supporre? In mancanza del testo finale, si possono fare solo alcune considerazioni generali. Come quella, per esempio, che è difficile cogliere un’idea forte di rilancio in un provvedimento che stanzia ben 3 miliardi di soldi pubblici per salvare ancora una volta Alitalia, compagnia aerea priva da anni di un disegno strategico, e la metà – appena 1,5 miliardi – per un settore-chiave come la scuola. O, ancora, che amplia giustamente la platea di categorie bisognose di assistenza monetaria, ma poi si "dimentica" di premiare la cellula-base della società, quella che più di tutte sta sopportando e supportando i disagi del lockdown: la famiglia. Similmente, si danno aiuti alle scuole statali, mentre ci si riserva un supplemento di riflessione per evitare il collasso della "gamba" paritaria del sistema nazionale d’istruzione.

Incongruenze e limiti di un decreto-legge abnorme, che ha superato i limiti di qualunque Manovra degli anni "duri". Un maxi-testo di oltre 250 articoli e 500 pagine, che opera una sommatoria di misure delle quali è arduo individuare il "fil rouge" al di là della riparazione dei danni economici e sociali, corre più che altro un rischio serio: continuare a far prevalere proprio quella burocrazia che, invece, si vorrebbe combattere, causa prima dei ritardi che hanno zavorrato la corsa dei primi sussidi. Il governo Conte assicura che non sarà così, che – forti dell’esperienza e delle critiche – l’iter sarà più veloce: e alcuni esempi lo lasciano pensare, vedi il bonifico accreditato direttamente sul conto bancario per i ristori a fondo perduto alle imprese. Solo il tempo potrà dire, però, se il molto tempo in più dedicato alla confezione delle norme è riuscito anche a migliorare i meccanismi: il precedente "decreto liquidità", presentato in pompa magna come «una potenza di fuoco da 400 miliardi», si è rivelato invece poca cosa proprio per la sua farraginosità.

La prima impressione che si coglie, tuttavia, dalle varie bozze circolate alla vigilia è la prevalenza di tanta spesa corrente rispetto a quella per gli investimenti, che oggi più di prima restano invece l’architrave di una vera ripresa.

E, in seconda battuta, di una mentalità assistenzialista, poggiata sulla distribuzione delle risorse più che di una logica a favore di quelle piccole e medie imprese sempre indicate come una delle ricchezze d’Italia. Si fatica a cogliere, insomma, un’idea 'forte'. Poteva esserlo un vero 'patto sociale', da stringere con imprenditori e sindacati, basato su un principio: un maggior peso agli aiuti a fondo perduto in cambio di un impegno al pagamento delle tasse e, soprattutto, al mantenimento dell’occupazione, anziché pesare sulla cassa integrazione (peraltro lo strumento più di tutti giunto in ritardo, quando è arrivato, ai lavoratori). Il governo, anziché dedicarsi a un accurato ascolto preventivo di tutte le parti sociali, ha accettato invece di stravolgere in corsa parte dell’impianto prevedendo il taglio dell’Irap (chiesto da Confindustria), con un costo sui 4 miliardi, scollegato peraltro da ogni riforma fiscale. Un taglio generalizzato, peraltro, che quindi va pure alle aziende che non hanno subito perdite in questa epidemia e a quelle più inserite nei mercati esteri, che magari hanno già ripreso le attività e hanno meno problemi.

Sia chiaro: mai come ora azioni di sollievo sono essenziali per venire incontro alle tante sofferenze in aumento nella popolazione, e in questo senso va accolto il Reddito d’emergenza che ora va a integrare quello di cittadinanza. Anche perché bisogna tener presente che è solo nei prossimi mesi che la recessione prodotta da questa crisi mostrerà tutta la sua forza epocale, quello che stiamo vivendo è ancora un assaggio. Ma forse si poteva fare una maggior distinzione tra chi ha davvero bisogno e chi tutto sommato poteva tirare avanti lo stesso. Al governo va concessa l’attenuante di aver operato in un contesto difficilissimo, soprattutto perché – per l’annosa zavorra del nostro passato e del debito pubblico – non ci possiamo permettere tutto. Per evitare che un debito già indicato attorno al 160% del Pil esploda ancora di più, rischiando poi di creare – in attesa di aiuti diretti da una Ue anch’essa troppo lenta – altri problemi ai cittadini italiani. Da questa vicenda, al tirar delle somme, sarebbe positivo se l’Italia ricavasse soprattutto una lezione su tutte: ben vengano i sussidi, specie se celeri e semplici, ma in questo Paese serve soprattutto meno burocrazia per non mortificare lo spirito d’intrapresa che resta il motore primo dell’iniziativa umana. E questo vale anche per la dimensione solidale che la pandemia può e deve rafforzare.