Opinioni

Tanta polemica ma pochi fatti. La zuffa con Macron dei pentaleghisti

Pietro Saccò mercoledì 23 gennaio 2019

Niente compatta Cinquestelle e Lega come il prendersela tutti insieme con qualcuno. Quando occorre fare scelte concrete i due partiti di maggioranza sono quasi sempre divisi e tentano ogni volta di sgambettarsi a vicenda. La foto della conferenza stampa di presentazione del cosiddetto "decretone" – quella in cui Luigi Di Maio e Giuseppe Conte sorridono mostrando il cartello con scritto «reddito di cittadinanza e quota 100» mentre al loro fianco Matteo Salvini ha l’aria ancora più soddisfatta perché ha un cartello tutto suo, dove c’è scritto solo «quota 100» – è la perfetta immagine di quanto sia faticosa la convivenza a Palazzo Chigi. Per questo ogni tanto alla maggioranza occorre costruirsi un nemico contro cui sia leghisti che pentastellati possano scatenarsi per sentirsi di nuovo amici: ce la si può prendere con i «giornaloni», con Mario Draghi o contro gli euroburocrati. Gli «avversari del popolo», a volerli trovare, abbondano. Ce ne sarebbe abbastanza per tirare avanti un’intera legislatura.

Come «nemico del popolo» Emmanuel Macron è perfetto: governa la Francia, un Paese che ci assomiglia come nessun altro e con il quale abbiamo tante storiche rivalità; è arrivato alla politica dopo una rapidissima carriera nelle banche d’affari (e in quella Rothschild che il senatore pentastellato Elio Lannutti ha attaccato lunedì con un incredibile tweet antisemita di cui è stato costretto a scusarsi) e persegue una politica europea e internazionale che mette senza tante storie gli interessi del suo Paese davanti a quelli degli altri.

Tra l’altro adesso è un bersaglio facile: ha una popolarità ai minimi storici e ha trovato nei 'gilet gialli' un avversario tosto, probabilmente il più imprevedibile e dirompente movimento populista d’Europa. Qui non si tratta di entrare nel merito delle ultime provocazioni anti-Macron di Di Maio e Salvini: dalla protezione offerta da Parigi ai terroristi alle accuse di indomito colonialismo fino al sorprendente inserimento nei temi della campagna elettorale per le europee del collegamento tra il settantenne franco Cfa e i flussi migratori di questi anni. Sono questioni che contengono elementi di verità e su cui in Europa si potrebbe anche utilmente discutere, come ha detto l’esperto ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, nel tentativo di dare una dignità diplomatica agli attacchi dei due vicepremier. Il punto è ovviamente il metodo e più precisamente il problema sono i fini. Se vogliono sollevare una questione internazionale con l’intento di affrontarla davvero, i vicepremier non possono farlo da comizi, in tv o con delle dirette su Facebook. Lì otterranno qualche assenso convinto dei telespettatori o i like di chi si sta svagando sul social network. Dovrebbero invece far lavorare la diplomazia.

Prima ancora, dovrebbero avere un preciso obiettivo da raggiungere e una strategia per riuscirci. Non si può ragionare di Africa senza tenere conto – è un esempio banale – dell’avanzata della Cina nel Continente. Eppure nello stesso Ministero di Di Maio c’è un sottosegretario, il sinofilo Michele Geraci, che in una surreale intervista ancora ben visibile su Youtube chiede candidamente: «Ma all’africano medio, che muore di fame come vediamo nei filmati, interessa che la Cina prende il cobalto e gli dà da mangiare o che sta per altri dieci anni con un tasso di povertà al 50%?».

Ma queste distanze all’interno del governo su quello che è un bene o è un male per l’Africa e per i suoi popoli si possono facilmente dimenticare, se il vero obiettivo è fare polemica per rastrellare un po’ di voti alle europee facendo leva sul sentimento anti-francese di non pochi italiani. Lunedì, mentre dalla maggioranza facevano a gara per attaccare l’Eliseo e la nostra ambasciatrice a Parigi veniva convocata al Ministero degli Esteri, nelle stanze di Versailles Macron accoglieva centocinquanta capi di impresa di tutto il mondo (compresi gli italiani Riccardo Illy e Guido Barilla oltre a manager di aziende ad alta crescita come Chiesi Farmaceutici e Angel Group). I manager hanno avuto modo di confrontarsi personalmente con i ministri del governo francese e i capi delle agenzie pubbliche del loro ambito di attività per discutere delle prospettive di investimento nel Paese. Era la seconda edizione di Choose France, l’evento creato da Macron per convincere le imprese straniere a portare soldi e posti di lavoro in Francia.

Una strategia che, racconta informalmente qualcuno dei presenti, sembra dare ottimi risultati. Prima di incontrare i manager, il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha ricevuto a Parigi il commissario europeo alla Concorrenza, Margrethe Vestager: ha fatto di nuovo pressione per ottenere il via libera alla fusione tra i colossi ferroviari Alstom Siemens. Anche l’Italia avrebbe bisogno di fare pressione su Vestager: nel nostro caso sarebbe necessario evitare che il commissario bocci l’operazione Fincantieri-Stx, osteggiata da Parigi e Berlino. Il nostro ministro dello Sviluppo economico, però, sembra troppo impegnato dalla campagna elettorale per dedicare del tempo a questo tipo di attività.

Può darsi che entrambe le fusioni tra aziende saranno comunque bloccate. Magari le elezioni europee daranno ulteriore forza ai partiti di maggioranza in Italia e affosseranno definitivamente Macron rendendo inutili anche i suoi sforzi per portare investimenti in Francia. Può succedere, insomma, che tutto il lavoro diplomatico dei francesi non porti a nulla. Sempre più spesso un governo che 'lavora' tende ad avere meno successo politico di un esecutivo concentrato sulla creazione e il mantenimento del consenso. Il consenso però è è utile ai politici, mentre al Paese serve il buon lavoro della politica: in questo perenne conflitto di interessi tra popolarità e sagge scelte concrete, chi oggi governa l’Italia appare sempre più sbilanciato dalla parte sbagliata.