Opinioni

L'ingiusto prezzo. Sud Sudan, 30 mesi di martirio

Giulio Albanese martedì 12 luglio 2016
​Non è sempre facile illustrare le ragioni che determinano il ritardo nello sviluppo dell’Africa subsahariana. Solitamente, infatti, vi è la tendenza a giudicare il corso degli eventi facendo riferimento a impianti ideologici che si polarizzano intorno a due analisi "estreme". Da una parte, infatti, vi sono i reazionari, coloro cioè che vorrebbero riproporre un modello coloniale, tendendo istintivamente a colpevolizzare le popolazioni autoctone, incapaci, a loro dire, di amministrarsi in modo efficace ed efficiente a beneficio di tutta la popolazione. Sul versante opposto militano, invece, i terzomondisti a oltranza, quelli che spiegano l’arretratezza dell’Africa, anche in questo primo segmento del Terzo Millennio, con l’impatto devastante del neocolonialismo e delle sue conseguenze: dal fenomeno migratorio all’economia di rapina perpetrata da più o meno occulti potentati. Ebbene, la crisi sudsudanese, che in queste ore si sta manifestando con il suo carico indicibile di violenza e di miserie umane e spirituali, è sintomatica della complessità di uno scenario che può essere giudicato solo e unicamente da chi ha il coraggio di denunciare l’inganno con sano realismo.Ecco che allora emergono le responsabilità anzitutto dei "signori della guerra", il presidente Salva Kiir e il suo antagonista Riek Machar. La tesi prevalente è che il Paese sia sprofondato nel caos per vecchie ruggini tra il primo di etnia denka e il secondo di etnia nuer.In effetti, già negli anni Novanta, Machar aveva contestato la leadership dell’allora leader storico dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla), John Garang, fondando un movimento scismatico denominato Movimento per l’Indipendenza del Sud Sudan (Ssim). Le divergenze, allora, riguardavano l’agenda politica della ribellione che si divaricava, al suo interno, secondo l’appartenenza etnica. Quando poi Garang morì in un misterioso incidente – il suo elicottero precipitò a pochi mesi dalla firma dell’accordo di pace di Nairobi –, furono in molti a sospettare che vi fosse la longa manus di Machar. Il successore di Garang, l’attuale presidente Salva Kiir, ebbe anch’egli non poche difficoltà nel contenere l’esuberanza di Machar, soprattutto quando si trattò di definire la gestione delle risorse petrolifere nella regione del Great Upper Nile (Gup). Non è una semplice coincidenza del destino se, proprio da quelle parti, nel 1983, scoppiò la seconda guerra civile sudanese, con evidenti complicità straniere. La bramosia dei due contendenti odierni ha così soffocato il sogno e le aspirazioni del Sud Sudan, la più giovane realtà statuale a livello planetario, nata a seguito della consultazione referendaria del gennaio 2011. Col risultato che a pagare il prezzo più alto, come al solito, è la povera gente che sopravvive in condizioni subumane, in una terra flagellata da una terribile catastrofe umanitaria.Un martirio, peraltro, che si sta consumando in sordina, da almeno due anni e mezzo, lontano dai riflettori del sistema mediatico internazionale. E dire che questo Paese potrebbe godere i benefici dell’oro nero e dell’oro blu (quello del corso del Nilo che lo attraversa). Ma forse sarebbe anche opportuno chiedersi se l’agognata indipendenza sia stata preparata e voluta dalle grandi potenze (Stati Uniti e Cina in particolare) in funzione del popolo sudsudanese o se invece l’unica preoccupazione sia stata quella di affermare il business degli idrocarburi. Infatti, il Paese ha ottenuto l’autodeterminazione quando a dettare le regole del gioco erano gli ex ribelli e dunque senza che vi fosse una piattaforma politica in grado di assicurare una libera partecipazione democratica della società civile. Col risultato che l’elemento etnico ha preso il sopravvento, dando alle poche formazioni politiche in lizza una matrice fortemente tribale. In questo contesto, l’impegno delle Chiese cristiane, sostenitrici del diritto di cittadinanza, è certamente quello di mediare, prima che sia troppo tardi.