Opinioni

Un uomo di nome Giobbe/2. La risposta dell’intoccabile

Luigino Bruni sabato 21 marzo 2015

La ricchezza, ogni ricchezza umana, tutta la nostra ricchezza, è prima di tutto dono. Veniamo al mondo nudi, e iniziamo il nostro cammino sulla terra grazie alla gratuità di due mani che ci raccolgono quando ci affacciamo sul mondo. Riceviamo in dono l’eredità di millenni di civiltà, di genialità, di bellezza, che ci vengono donati senza alcun merito nostro. Nasciamo dentro istituzioni che c’erano prima che arrivassimo, che ci accudiscono, proteggono, amano. Il nostro merito è sempre sussidiario al dono, ed è molto più piccolo. E noi invece continuiamo a creare ingiustizie crescenti in nome della meritocrazia, e a vivere come se la ricchezza e i consumi potessero cancellare la nudità dalla quale veniamo e che ci attende sempre fedele nei crocicchi di tutte le strade della vita.

Satana (“l’oppositore”) perde la sua prima sfida, perché nonostante il suo vento impetuoso che spazzò via tutti i beni di Giobbe, questi non maledisse Dio: «In tutta questa vicenda Giobbe non peccò né mai lanciò attacchi contro Dio» (1,22). Ma il Satana non è ancora convinto della gratuità della fede di Giobbe, e così chiede a Dio il permesso di provarlo nell’ultimo bene rimasto: il corpo. E così, in una nuova assise della corte celeste, prende la parola e chiede ancora: «Pelle per pelle: per salvarsi la vita l’uomo è disposto a tutto. Perciò prova un po’ a stendere la tua mano e a colpirlo nelle ossa e nella carne: scommetto che ti scaglierà in faccia maledizioni» (2,4-5). Dio gli risponde ancora: «Ecco, lo metto nelle tue mani». Satana allora «colpì Giobbe con un morbo maligno che lo avvolse dalla pianta dei piedi fino alla testa. Giobbe prese un coccio per grattarsi e sedette in mezzo all’immondizia» (2,7-8).

La sventura di Giobbe giunge fino al limite del possibile. Gli rimane sola la nuda vita. Ma, come Giobbe, solo quando siamo dentro il tracollo totale scopriamo risorse sconosciute che ci fanno capaci di sopportare sofferenze che prima di viverle pensavamo fossero insopportabili. Una fortezza che ci potrà sorprendere anche quando ci scopriremo capaci di morire, quando per tutta la vita avevamo pensato di non esserne capaci.

Con il secondo capitolo del libro di Giobbe l’orizzonte dell’umano buono amico di Dio continua ad allargarsi, e nessuna condizione umana resta simbolicamente fuori. Giobbe sul mucchio di letame, in mezzo alla spazzatura del villaggio, tocca il punto più basso della condizione umana, le periferie esistenziali più distanti, gli scarti, tutti i “vinti”, tutte le scorie della storia. Le discariche si trovavano fuori dalle mura, perché la malattia della pelle di Giobbe (forse qualcosa di simile alla lebbra) lo marchia come impuro, e quindi deve essere cacciato via, con gli “scomunicati”. Nessuna malattia più di quelle infettive della pelle erano per l’uomo medio-orientale segno della maledizione che Dio riserva solo ai peccatori. Nelle religioni “economiche” del tempo (e, oggi, anche in quella delle nostre grandi imprese e banche) la sventura e l’impurità vengono considerate come gli effetti di una vita da peccatore. È questa equivalenza che Giobbe non vuole accettare – per lui, e per noi. Giobbe da ricco e potente si ritrova sventurato, impuro, e quindi intoccabile, fuori da tutte le caste sociali. È questa ancora oggi la triste sorte di imprenditori, dirigenti, lavoratori, politici, sacerdoti, che caduti in rovina si ritrovano non solo impoveriti, ma seduti su un cumulo di macerie che include anche famiglia, amici, salute. E subito finiscono anche tra gli impuri fuori dal villaggio, allontanati e emarginati da club, associazioni, circoli, confinati in discariche sociali e relazionali, scansati da tutti e non toccati per il terrore di restare anch’essi contagiati dalla loro rovina.

Ma Giobbe, sulla cenere e il letame, con il coccio, non maledì Dio. Continuò a essere giusto. Non c’è gratuità più grande di chi spera e vuole che Dio esista e che sia giusto anche quando nella sua vita personale non vede più né i segni della sua presenza né quelli della sua giustizia. Giobbe continua a cercare la verità e la giustizia. Una ricerca disperata, che ha un valore etico e spirituale immenso quando pensiamo che nell’Antico Testamento (Giobbe incluso) l’idea dell’esistenza di una vita dopo la morte è molto rarefatta, quasi inesistente. Il luogo dove YHWH vive e dove si può incontrare la sua benedizione è questa terra, non un altro. La lotta di Giobbe abbraccia allora ogni essere umano che voglia apprendere il mestiere del vivere senza accontentarsi delle risposte semplici, neanche di quelle semplicissime dell’ateismo. Giobbe, in ogni tempo, continua a lottare anche per loro.

Se la vita funziona e fiorisce arriva inevitabilmente la tappa del mucchio di letame. È l’appuntamento con la povertà non scelta. Finché siamo noi a scegliere di essere poveri, siamo forse nel campo delle virtù ma non siamo ancora in quello di Giobbe. La povertà scelta, che ha generato e genera molte vite buone, non è la povertà di Giobbe: Giobbe è un ricco e felice che diventa povero senza averlo scelto, e per questo la sua condizione abbraccia le povertà di tutti, soprattutto quella di chi non l’ha scelta, ma vi si ritrova dentro. Una povertà radicale e universale, perché mentre sono stati sempre pochi coloro che hanno scelto la povertà come stile di vita (ancora meno sono quelli che riescono a liberarsi dalla ricchezza di aver liberamente scelto la povertà), molti, potenzialmente tutti, possiamo fare l’esperienza di diventare poveri senza averlo né chiesto né scelto. E lì incontrare Giobbe, che ci attende e combatte con e per noi. Come quando, dopo aver speso una vita per costruire una ricchezza spirituale, un giorno, quasi sempre all’improvviso, ci si ritrova nudi su un mucchio di letame, privati di tutti i “beni” che avevamo accumulato. Ho avuto il dono di conoscere alcune persone grandi, che hanno trovato la radicale libertà del letame solo preparandosi a morire, quando liberi da tutte le ricchezze, soprattutto da quelle spirituali, hanno spiccato un nuovo volo finalmente libero, anche quando è durato solo pochi anni, mesi, a volte giorni o ore. Questa povertà radicale e non-scelta ci fa diventare quei “piccoli” che riescono ad entrare in un altro regno, perché prima lo riescono a vedere e a desiderare.

Giobbe sul letame non è totalmente solo. Da lui arrivano prima la moglie e poi alcuni amici. La moglie fa una rapida, infelice ed unica comparsa, mentre gli amici saranno i protagonisti di tutto il dramma di Giobbe. «La moglie gli gridò: “Continui a persistere nella tua integrità? Maledici Dio e crepa”» (2,9). Parole misteriose e dalle molte possibili spiegazioni, ma che non sono rare nella vita dei giusti caduti in sventura, quando al culmine di una grande prova succede che siano proprio le persone più vicine a diventare le più distanti, perché oltre a non capire che cosa stanno vivendo mogli, padri, mariti, finiscono per dare i consigli meno saggi e veri, anche se spinti dall’amore o dalla pietà. Dalla moglie giunge a Giobbe un invito ad arrendersi, a suicidarsi, a lasciarsi morire.  Ma Giobbe non l’ascolta: «Parli come una stupida: se da Dio accettiamo i beni perché non dovremmo accettare anche i mali?» (2,10). Giobbe non scelse la morte, e anche se (lo vedremo) sentirà la tentazione di voler morire, continuerà a vivere, a lottare e a cercare un senso: «Anche in tutta questa vicenda, Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,10).

Giobbe non maledì Dio. Però maledì se stesso e la propria vita, un’auto-maledizione di una poesia e di una umanità che ci lasceranno senza fiato, e che dopo migliaia di anni sono capaci di commuoverci, di convertirci, di spingerci a cercare almeno un Giobbe attorno a noi, e accompagnarlo su queste pagine immense. È così scoprire una nuova preghiera, forse quella più bella di tutte. Ogni volta che rileggiamo Giobbe, Qoelet, Marco, possiamo donare parole ai tanti ammutiti dal dolore e dalla vita, che non possono, non riescono, non vogliono gridare i loro dolori più grandi e veri. Si può cominciare o ricominciare a pregare – a pregare si dimentica e si reimpara molte volte nella vita – prendendo in prestito le parole estreme di Giobbe, fino a farle diventare le nostre parole e quelle di chi non ne ha più.

Il poema di Giobbe è la rivelazione della immensa profondità dello spessore morale dell’uomo, capace di continuare a benedire Dio nella sventura radicale e immeritata senza la sua reciprocità. Giobbe cercherà in tutto il suo dramma di trovare un senso a questa mancanza di reciprocità di Dio, e con lui ogni lettore che legge il libro di Giobbe all’interno di una Bibbia fondata sulla reciprocità “contrattuale” dell’Alleanza e della Legge (Torah). Quale sarà la reciprocità di Dio?

La scommessa tra Satana e Elohim non è vinta da nessuno dei due: il vero vincitore è Giobbe, che “costringerà” Dio stesso a liberarsi a sua volta dalla logica retributiva, economica, contrattuale. A chiedergli di diventare ai suoi occhi d’uomo ciò che è: Altro.

Grazie a Giobbe, uomo fedele anche senza reciprocità, Dio deve allora continuare ad amarci anche quando noi smettiamo di farlo. Può, e deve, essere presente in un mondo che non lo vuole, non lo vede, non lo desidera più.

l.bruni@lumsa.it