Opinioni

Passaggio politico da onorare. Straordinari doveri

Marco Tarquinio domenica 28 aprile 2013
L’unico governo possibile, dunque il governo che andava fatto: pieno di facce nuove e seminuove, con la sua dose di usato sicuro, tante donne e molti giova­ni e, com’era scontato, alcune sorprese (non tutte, per la verità, ugualmente pro­mettenti). Un governo che è impossibile attribuire a una parte sola, e che nessuno può proclamare o sentire “suo”. Un gover­no che è ragionevolmente il primo e l’ulti­mo della XVII legislatura, ma che dovrà an­che essere l’ultimo della cosiddetta Se­conda Repubblica e sperabilmente l’«ostetrico», in decisivo dialogo con il Par­lamento e con l’opinione pubblica nazio­nale, di una nuova Repubblica che preser­vi il meglio di quella saggiamente pensata e realizzata 65 anni fa e che restituisca e­quilibrio e armonia a ciò che, in questi an­ni, è andato smottando e aggrovigliando­si nel nostro ordinamento democratico. C’è da credere che delineare questo profi­lo del nuovo esecutivo sia stata la princi­pale preoccupazione di Enrico Letta, con­sapevole sin dall’inizio del suo percorso da presidente del Consiglio designato che gli sarebbe toccato di dar vita a un governo “con patria e senza bandiere”. Un gruppo di lavoro, cioè, esclusivamente dedito alla fatica di propiziare la “risalita” dell’Italia dal gran pantano della crisi economica e sociale (che distrugge lavoro, fiducia e mi­na persino le solidarietà di base tipiche del­la società italiana) e del discredito della po­litica (che ormai, appunto, intacca le stes­se istituzioni). Proprio per questo, il gover­no Letta non potrà permettersi di fare nien­te di più di ciò che è indispensabile, inevi­tabile e condivisibile a quel duplice fine: e­conomia e riforme. Un «niente di più» che è davvero e urgentemente molto. Proprio per questo, in nessuno dei suoi ministri, neanche in quelli portatori di visioni più marcate e controverse, il governo Letta po­trà permettersi di servire un qualche inte­resse di partito e di fazione, ma dovrà ap­parire orientato a quello che tutti (o qua­si) potranno immediatamente e pacifica­mente intendere come il «bene comune».Avevamo auspicato, pensando a questo, che nascesse un «governo di servizio», e abbiamo visto con piacere che quest’idea è affiorata con chiarezza sulle labbra del premier che si appresta a giurare e a pre­sentarsi al Parlamento. Al di là dei nomi e delle storie dei nuovi ministri, un simile at­teggiamento, una simile ambiziosa umiltà ci sembra la precondizione essenziale per dare saldezza e nobiltà, contro la retorica e la pratica (ugualmente meschine) dell’«inciucio», a un’operazione che rea­lizza l’avventurosa e generosa composi­zione di forze e visioni di sinistra, di cen­tro e di destra che per due decenni sono sta­te quasi sempre non componibili e spesso aspramente contrapposte e che nella re­cente fase del governo tecnico avevano più subìto che promosso le severe e non più rinviabili politiche di emergenza.Giusta­mente il presidente della Repubblica, Gior­gio Napolitano, definisce quello che si è ap­pena formato un «governo politico», ob­bligato e inedito frutto di «un’intesa politi­ca tra forze parlamentari che, secondo Co­stituzione, garantiranno la fiducia in en­trambe le Camere». È così, è esattamente così. E questo vuol dire che siamo al cospetto di un governo straordinario, nato in condizioni di straor­dinaria difficoltà, destinato ad affrontare un percorso straordinario e che si giustifi­ca appunto per gli straordinari doveri che gli sono affidati. Che, lo ripetiamo, so­no quelli di riconciliare noi italiani con chi ci rappresenta, con la nostra storia e intel­ligenza civile ed economica, con le regole fondamentali e con le pratiche ammini­­strative dello Stato in cui viviamo. Il tem­po a disposizione non sarà prevedibil­mente molto. Forse appena un anno, for­se un po’ di più. Premier, ministri e partiti dovranno dimostrarsi all’altezza, guar­dando non solo alle attese dei sostenito­ri e dei più o meno speranzosi, ma anche ai dubbi e alle ostilità dei prevenuti del­la prima ora e ai perplessi dell’ultima, che certo non mancano. La sfida è dura, ma le ragioni per onorarla sono molte e in­calzanti.