Opinioni

Siamo tutti Kevin Carter. Barcellona: il terrore e le sue immagini condivise

Alessandro Zaccuri sabato 19 agosto 2017

Di solito la chiesa di Betlem non viene segnalata tra le principali attrazioni delle Ramblas. Eppure se ne sta lì da secoli, silenziosa nel tumulto dei turisti, sullo stesso lato del Liceu, praticamente a metà strada fra il punto in cui giovedì sera il furgone della strage jihadista ha fatto irruzione in mezzo ai pedoni e il punto in cui la corsa del veicolo si è fermata, lasciando dietro di sé morti e feriti, paura e sgomento. È molto probabile che – ad avere pazienza, ad avere coraggio – si riesca a scorgere un frammento della facciata della parrocchia o, più facilmente, della sua fiancata in bugnato in qualcuna delle innumerevoli fotografie che sono state scattate e diffuse già nei minuti successivi all’attentato. Il furgone è passato davanti alla chiesa, impossibile che la sagoma dell’edificio non sia rimasta intrappolata in uno dei filmati.

Le immagini non mancano, in casi come questi. Non sono mai mancate a partire dall’11 settembre del 2001, quando l’attacco alle Torri Gemelle fu orchestrato a beneficio di telecamera da una al-Qaeda che, nonostante tutto, doveva ancora misurarsi con l’eventuale riluttanza delle reti televisive. Vanno o non vanno trasmessi i messaggi video di Osama Benladen? Il dilemma, che tenne banco nei primi anni Duemila, rischia oggi di apparire superato a causa dello sviluppo delle reti sociali. Le immagini ci sono, appunto, ci sono sempre e sembra che non si possano fermare. Transitano da una piattaforma all’altra, rafforzate da hashtag e commenti, incontrollate nella loro proliferazione.

Si tratta di un effetto ormai ampiamente previsto dai terroristi, che non per niente preferiscono colpire ai crocevia dell’affollamento globale: il lungomare di Nizza, i mercatini di Natale a Berlino, le vie dello shopping a Stoccolma, il centro di Londra. E le Ramblas di Barcellona, appunto. La città contemporanea è attraversata da un intreccio incalcolabile di sguardi. In ogni istante ciascuno di noi può trovarsi nell’inquadratura di una telecamera di sorveglianza o, più normalmente, di uno smartphone impegnato ad archiviare un ricordo, registrare una curiosità, stabilire un contatto visivo. Ormai lo diamo per scontato, lo accettiamo senza discutere e anzi, quando capita, ne approfittiamo volentieri, come se tutto questo non richiedesse contropartita. Come se fissare lo sguardo sull’altro non comportasse, sempre e comunque, un’assunzione di responsabilità. Guardare non è un atto innocente e rischia addirittura di diventare colpevole nel momento in cui entrano in gioco le regole non scritte di un terrorismo che ha come principale bersaglio la nostra capacità di immaginazione e rappresentazione simbolica. Avvelenare le fonti del pensiero e del sentimento, ecco qual è il risultato al quale mirano gli assassini di un Daesh sempre più fragile sul campo di battaglia e sempre più minaccioso nei luoghi della convivenza quotidiana.

Certo, non si diventa complici del terrorismo per aver scattato e diffuso una foto, anche perché non di rado, all’origine di quel gesto, c’è un’urgenza di testimonianza e condivisione, una pulsione istintiva nella quale il sollievo di essere rimasti indenni si mescola al lutto per le vittime. Allo stesso modo, non possiamo sapere se la mano che impugna lo smartphone non sia pronta, un attimo dopo che l’immagine è stata colta, ad aiutare chi è rimasto a terra. Tutto vero, ma la responsabilità resta, ed è la responsabilità terribile che diverse generazioni di reporter hanno conosciuto in situazioni estreme, fino all’episodio culminante di Kevin Carter, il giornalista sudafricano morto suicida nel 1994, poco dopo aver ricevuto il premio Pulitzer per l’immagine che documentava la tragedia della carestia in Darfur. Per Carter la sequenza, celeberrima, della bambina assediata dall’avvoltoio si era trasformata in un rimorso insostenibile: perché si era accontentato di fotografare, si domandava, quando avrebbe potuto prestare soccorso?

Il dramma, ora come ora, è che non siamo soltanto tutti americani, tutti parigini, tutti inglesi o catalani. Davanti all’orrore, che lo sappiamo o no, siamo tutti Kevin Carter.