Opinioni

La dedizione premiata dei soccorritori. Sperare sempre (sino a far rinascere)

Marina Corradi sabato 21 gennaio 2017

La dedizione premiata dei soccorritori sul Gran Sasso Dall’alto, nelle riprese degli elicotteri, gli uomini sono figure nere grandi poco più di formiche, che si agitano spasmodicamente attorno a un cratere, nel bianco della montagna innevata. Ne entrano e ne escono, scendono ancora, gli apparecchi segnalatori antivalanga stretti alle caviglie. Si rincorrono grida, coperte da un assordante rumore di seghe elettriche. Calarsi in ciò che resta dell’hotel sommerso dalla slavina deve essere come scendere in una miniera: dura come la roccia la neve compressa, eppure instabile e insidiosa. Quanto alto sarà il cunicolo che conduce ai sopravvissuti? Basso da strisciarci appena dentro, pregando che la volta non ceda.

Carponi, a salvare vite. Finché non emerge dal cratere la testa bruna di un bambino, il primo. Urlano i soccorritori, lo abbracciano. La mamma, che emerge subito dopo, ha lunghi capelli biondi. Sembra stordita dalla luce. Si volta mentre la portano via, allunga un braccio verso uno dei suoi salvatori, si ferma, come in una preghiera. Sta dicendo, lo si saprà poi: cercate mia figlia, cercate la mia bambina. E gli uomini del soccorso alpino si rituffano nel tunnel, a Rigopiano. Quanto buio deve essere là sotto, e quanto freddo. Quanto silenzio: la neve soffoca i rumori, la neve ovatta, in una pace tombale. Sentire quelle prime sei voci, ieri mattina, ai soccorritori deve essere parso un miracolo. Forse per un istante hanno esitato a crederci.

Poi, negli scambi radio con gli elicotteri, le parole sono risuonate sicure: «Confermo, sei ritrovati vivi». Parole ferme, ma percorse da una incomprimibile gioia. Una gioia più grande quando, a sera, è certo: quattro altri bambini sono in salvo. Giovedì sera, pochi avrebbero scommesso sulla possibilità di trovare qualcuno in vita sotto a quello sfacelo. Eppure, i soccorritori hanno preso a scavare. Con le pale, all’inizio, con delle pale ridicolmente piccole rispetto alla massa immane della neve. Nella notte hanno continuato, ostinati. I collegamenti dei tg, col passare delle ore, erano andati calando. Non ci si aspettava più di trovare superstiti. Quelle voci, quaranta ore dopo, come un miracolo. Il miracolo, l’ha fatto anche la volontà degli uomini di insistere, quando i cani avevano smesso di cercare. Il miracolo è stato che gli uomini abbiano continuato, in condizioni proibitive, a sperare.

Ad accanirsi con le pale leggere contro la mole sovrana e opaca della slavina: dall’alto, dagli elicotteri, che povere formiche sembravano, sulla montagna minacciosa e immane. L’altro miracolo è che ci sia gente disposta, per uno stipendio da poco, a rischiare la vita per altri, mai visti. E che questo non conoscere nemmeno quell’'altro', non li fermi. Anzi, in frangenti come quello del Gran Sasso sembra emergere dalla tragedia un legame tra gli uomini profondo, più forte di ogni cosa. La vita altrui improvvisamente è, davvero, un bene insuperabile, tanto da mettere in gioco la propria, di vita. Come se, nel fondo aspro della battaglia, infine ci si vedesse fratelli. E chi da casa sta a guardare la tv si blocca su quelle immagini, le cerca ancora, catturato da una commozione cui non sa ben dare un nome.

È che forze profonde entrano in campo, quando la salvezza del prossimo è lì, a un passo, vicina eppure lontana. Una speranza coriacea allora ci trascina, una voglia di vita nostra e dell’altro, di vita buona. Ce ne lasciamo prendere e senza cambiare canale restiamo a guardare, zitti, quasi stupiti del nostro stesso coinvolgimento. Cos’è? È che quelle persone, quei bambini che emergono dal cratere gelido e nero fanno pensare a un venire al mondo, al parto di vite che parevano sepolte. È questo rinascere, che ci attanaglia. Nel fondo, non detta ma annodata a noi come una radice forte, si leva una legge: sperare, bisogna, sempre. Sperare come una umana militanza. Come un imperativo interiore, che abbiamo, tenace, scritto addosso.