Opinioni

Il richiamo di Benedetto XVI. Spartiacque per gli uomini e le nazioni

Fulvio Scaglione giovedì 18 novembre 2010
Come in tante altre occasioni, an­che sul caso di Asia Bibi, la gio­vane madre pachistana accusata di blasfemia da un gruppo di colleghe e da un imam per aver difeso la propria fede cristiana, arrestata nel giugno 2009 e ora condannata alla pena di morte, Benedetto XVI ha saputo tro­vare parole che segnano uno spar­tiacque nella consapevolezza degli uomini e delle nazioni. Ieri, al termine dell’udienza genera­le, il Pontefice ha ricordato che «in questi giorni la comunità internazio­nale ha seguito con grande preoccu­pazione la difficile situazione dei cri­stiani in Pakistan, spesso vittime di violenze e discriminazione». E ha ag­giunto: «In modo particolare oggi e­sprimo la mia vicinanza spirituale al­la signora Asia Bibi e ai suoi familiari mentre chiedo che al più presto le sia restituita piena libertà». «Prego – ha concluso Benedetto XVI rivolto ai fe­deli presenti – per quanti sono in si­tuazioni analoghe, affinché i loro di­ritti siano pienamente rispettati». È proprio quanto si erano augurati i vescovi del Pakistan, che infatti han­no subito espresso al Papa un «since­ro grazie per il suo grande coraggio, per la protezione dei senza-voce, di quanti sono vittime innocenti di vio­lenze e sopraffazioni». Sta tutta in queste due immagini così comple­mentari (Benedetto XVI che presta la propria voce a chi non può usare la propria) la forza di quelle frasi che, in un solo paragrafo, denunciano il ma­le e ne indicano la cura. Le comunità cristiane perseguitate non solo in Pakistan ma nel mondo (violenze e discriminazioni sono re­gistrate in 60 Paesi) soffrono per l’op­pressione esercitata da regimi, mag­gioranze etniche e religiose e gruppi di pressione economica e criminale, spesso alleati. Ma non soffrirebbero così tanto se non le avessimo abban­donate a se stesse e a una capacità di resistenza sperimentata almeno in tredici secoli, cioè dal dilagare dell’i­slam in una vasta porzione del mon­do allora conosciuto. Il governo ita­liano è certamente sensibile al tema, come il recente viaggio del ministro Frattini in Pakistan ha dimostrato, ma per molti altri non è un problema a­dattarsi ad alleanze politiche ed eco­nomiche con Paesi intolleranti della libertà religiosa (l’Arabia Saudita, per esempio) o anche solo incapaci di mantenere i buoni propositi come l’Egitto o lo stesso Pakistan. È una debolezza morale e un errore culturale. In Medio Oriente, in Asia, in Africa le comunità cristiane sono il miglior tramite per stabilire un pro­ficuo rapporto con le civiltà locali, ol­tre che la più efficace rappresenta­zione dei valori su cui è fondata la no­stra civiltà. È imperativo, dunque, che l’Occidente riconosca quelle antiche e nuove comunità cristiane come realtà rilevantissime e specialmente care, diverse e profonde espressioni d’Oriente eppure parti di sé, di noi tutti. È indispensabile questo ricono­scimento non formale, per protegge­re sempre quelle comunità persegui­tate e difenderle, quando è il caso. Al Papa sono bastate poche parole. Di che cosa hanno ancora bisogno i go­verni e le istituzioni internazionali?