Opinioni

Qui c’è tutto. Sono andato a vaccinarmi e ho visto già il domani

Alessandro Zaccuri domenica 16 maggio 2021

Ho visto il mondo di domani e secondo me non è male. Ci siamo tutti, c’è il meglio di quello che già conosciamo e c’è anche qualcos’altro, che magari risulterà imprevisto, però il futuro è così: non si sceglie, accade. Prima di raccontare ho aspettato qualche giorno, perché volevo essere sicuro di non essere sotto un qualche effetto collaterale del vaccino che mi è stato somministrato. Sì, è di questo che si tratta e so benissimo che la mia, in fondo, non è un’esperienza eccezionale. La riferisco a beneficio di tutti. Come il futuro, non mi appartiene. Per me il mondo nuovo si è manifestato al Palazzo delle Scintille di Milano.

Nome bellissimo, che predispone alla scoperta, anche se all’inizio tutto è come te lo aspetti, con gli alpini a regolare l’ingresso. Quello che si occupa di me è alto, di battuta pronta, gli occhi chiari che ridono al di sopra della mascherina. E dev’essere un alpino anche l’altro volontario, più tarchiato, che misura la temperatura puntandomi il termometro alla fronte. Sarà per la suggestione del luogo, ma a questo punto una scintilla si accende davvero: è da oltre un anno che il gesto viene ripetuto, ma finora non mi ero mai accorto di quanto sia simile a quello che l’angelo compie su Dante alla porta del Purgatorio.

D’accordo, lì non è questione di gradi centigradi ma di peccati da cui mondarsi, eppure resta l’impressione di una premura somministrata con delicatezza. 'Premura' è una parola che i milanesi (e non solo loro) usano in un’accezione particolare, per cui il significato originario di 'sollecitudine' assume un elemento di rapidità, quasi di fretta. Premurosa in entrambi i sensi è la donna che mi accoglie poco dopo. Indossa il camice bianco, ma si capisce che non è un medico, né un’infermiera. Persone come lei si incontrano spesso negli androni degli ospedali, degli istituti oncologici, dei tanti luoghi del dolore e della cura. Sono volontarie e volontari, di nuovo, e nella maggior parte dei casi pare che non facciano granché oltre a dispensare rassicurazione. Lei, per esempio, si limita a premere un pulsante al posto mio e a consegnarmi il numero della mia prenotazione.

Mi chiameranno presto, dice, e in effetti mi chiamano subito. Il ragazzo che avvia la pratica non avrà più di venticinque anni, mi riserva la stessa cortesia sbrigativa che ho imparato ad apprezzare nei miei figli e lascia cadere perfino l’occhio sullo smartphone senza che questo implichi disinteresse. L’ennesimo volontario, al crocevia di un corridoio, mi indica la dottoressa che compilerà l’anamnesi: una giovane di origine latinoamericana, dalla grafia precisa e spigliata, altro che gli scarabocchi di una volta. Firma il modulo, mi accompagna, mi mostra la fila alla quale accodarmi, mi saluta. L’attesa dura pochi minuti, il tempo di origliare la conversazione tra due infermieri che ammettono che verso quest’ora (sono le 19 passate), un po’ di stanchezza si fa sentire. Non si direbbe, tanta è la gentilezza con cui rispondono a richieste che si sono ripetute uguali per tutta la giornata. A vaccinarmi è un’infermiera sui trent’anni, l’accento lombardo appena smussato.

Mi ricorda quello che dovrei già sapere, ghiaccio se fa male e tachipirina se sale la febbre, mi raccomanda di restare in osservazione per un quarto d’ora. «Il ragazzo con il gilet giallo le darà un biglietto », spiega. Il ragazzo con il gilet giallo è un nero abbastanza imponente, taciturno. Sul biglietto è stampato l’orario al quale devo attenermi per lasciare il Palazzo delle Scintille. Quando viene il momento, lo faccio a malincuore.

Qui c’è tutto, penso: l’Italia di sempre, la premura di Milano, i giovani di ogni età, il fiero mondo nuovo di chi è venuto da un altro Paese. Per strada incrocio un alpino che torna a casa in bicicletta. Non saprei dire se sia lo stesso con cui ho scherzato mezz’ora fa. La lezione più importante, forse, viene proprio da lui: non si piange invano, se alla fine si impara a ridere con gli occhi.