Opinioni

Perché la vergogna e il dolore. Solo tre sillabe

Giovanni D’Alessandro lunedì 7 ottobre 2013
È una morte scomposta e silenziosa, quella per acqua. Scomposta perché chi sta per annegare si agita per non finire sotto la superficie del liquido elemento che lo ucciderà, senza compiere i movimenti giusti per stare a galla o nuotare. E delle centinaia di morti davanti a Lampedusa, pare certo, erano in pochissimi a saperli fare. Silenziosa perché l’acqua inghiotte ogni voce quando si è ancora vivi, annullando le grida disperate e penetrando i polmoni. È la fine orrenda di un viaggio orrendo compiuto attraversando terre segnate dalla guerra, dalla violenza, dal pericolo. Quasi tutti questi somali ed eritrei migranti, che sarebbe meglio chiamare fuggiaschi (e non è mai dal bene che si fugge) avevano percorso migliaia di chilometri attraverso il Sahara sino alle incontrollate coste della Libia, terra di nessuno, dove li attendeva lo scafista che li avrebbe condotti non in Italia, bensì alla morte. Erano sgusciati tra le maglie di terre piagate dalla guerra, come sulle alture tra il Corno d’Africa e il Sudan, dove cadere in mano a certe formazioni di combattenti significa morire.Erano stati dunque costretti a fuggire la morte nelle terre di origine; a fuggire la morte nelle terre intermedie; per trovare infine la morte in acqua, senza toccare la terra promessa - intravvedendola ma non mettendovi piede, come Mosè, perché li ha risucchiati un fondale di quarantacinque metri, quando Lampedusa era in vista oramai e solo la notte impediva di scorgerla. I forse 250 sommersi, i 155 salvati di Lampedusa non erano mai venuti al mondo, in un certo senso: non almeno al mondo come lo intendiamo noi. I loro erano altri mondi. Lontani. Incomprensibili. Impossibili. Hanno attraversato mondi impossibili e sono morti in un modo paradossalmente impossibile, quando il loro sogno stava per concretizzarsi e si è trasformato in un incubo. Una sola parola ha unito tutti questi mondi ed è stata quella del Papa, diretta a noi tutti e in particolare ai politici: vergogna. Vergogna per l’inadeguatezza di una legge malfatta, che induce nella sua vulgata polemica e mediatica al sospetto di trasformare comunque in reato il soccorso dell’«uomo a mare» in stato di pericolo, da sempre e ovunque imposto dalla non scritta legge del mare o ius aquae, prevalente su ogni ius soli, imposta dallo ius naturale o ius divinum, comunque si voglia chiamarlo, e cioè da quell’inestirpabile radice di Alterità presente in noi che si chiama coscienza. Un monito in tre sillabe a fermarsi e a soccorrere, come il samaritano sulla via per Gerico e a non passare oltre – con la giumenta ieri, col motore della barca oggi – come il sacerdote e il levita, superando la legge per una più grande Legge, oltrepassando il diritto verso il Giusto, perché sta scritto: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli». Un monito infine a tutti noi perché non ci resti, dopo, che tentare di recuperare i morti sott’acqua per metterli sotto terra.Circa un secolo fa, un grande poeta, Thomas Stearns Eliot, dedicò agli annegati, facendone un’icona della condizione umana, la sua poesia più famosa, nel poema spartiacque del Novecento The Waste Land, La terra desolata. La dedicò a un immaginario commerciante fenicio di 2.500 anni fa, Flebas, morto nello stesso mare Mediterraneo. S’intitola «Morte per acqua» e suona così: «Flebas il fenicio, morto da quindici giorni/ dimenticò il grido dei gabbiani/ e il gorgo profondo del mare/e il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina/ gli spolpò le ossa in sussurri. Sollevandosi e ricadendo/ passò un tempo pari alle stagioni della sua età e giovinezza/ volteggiando nei vortici./ Gentile o Giudeo,/ o tu che stai al timone e guardi sopravvento,/ considera Flebas, che un tempo fu bello e alto come te». I romani auguravano ai morti che la terra fosse leggera su di loro. Noi, unendoci a Eliot, possiamo augurare che sia lieve l’acqua, per ora, su tutti quei corpi preda dei vortici e delle correnti sottomarine. Nella speranza che i Flebas di ieri e di oggi trovino, in questo mondo o altrove, la loro terra promessa.