Opinioni

Rinnovare il civile aiuto agli ucraini. La solidarietà che più conta

Francesco Ognibene venerdì 2 dicembre 2022

La guerra è di per sé il peggio che l’uomo sappia produrre, la porta spalancata sul baratro che inghiotte la nostra umanità. Quella che sta devastando l’Ucraina ce lo dimostra ogni giorno, oltrepassando i confini estremi che credevamo di aver tracciato. Ci ritroviamo così in una stagione dura che in Italia è un autunno avanzato, con case scuole e uffici appena meno caldi del consueto per le economie nei consumi energetici, ma che da Leopoli a Odessa è già gelido inverno.
Con la certezza che la parte più aspra deve ancora arrivare. Perché l’obiettivo bellico non è solo la forza armata, e nemmeno ferrovie, ponti e strade, pur sempre sotto tiro. Il mirino si è spostato sui bersagli più vulnerabili, quelle che vengono abitualmente definite “vittime collaterali” perché altri sarebbero i target militari.

Invece, sulla mappa degli strateghi di Mosca adesso sembra esserci la vita della gente (famiglie, bambini, anziani, donne) che è rimasta e cerca di tener testa alla brutalità e alla paura conducendo le proprie giornate per come è possibile portarle avanti col boato dei cannoni a scandirle, il tessuto ancora vivo di una società civile e resistente. Per sbriciolare questo muro che è di casa e di comunità si bersaglia ciò che in inverno assicura la sopravvivenza agli inermi, al pari di acqua e cibo: le fonti di energia e di calore, quel minimo necessario ad attraversare mesi interi di un gelo nemmeno immaginabile per noi mediterranei. La pioggia di missili che cade ogni giorno su centrali elettriche, tralicci e snodi energetici è il segnale di un altro passo dentro il cuore di tenebra della guerra che è il progetto maligno di sempre: non solo terrorizzare la popolazione, ma stringerla dentro una morsa di ghiaccio che porta a sterminio o a fuga.

Che questo passaggio sia un segnale di debolezza dell’invasore in difficoltà o di una strategia arrogante, qui poco importa: non è di armi e di vittorie (vagheggiate e impossibili a tutti) che stiamo parlando.
Alla gente comune, presa in ostaggio dal conflitto, serve uno scudo che ne assicuri la sopravvivenza alla “guerra del freddo”. Ed è fuori discussione, oggi più di ieri, che ci riguarda totalmente quanto sta accadendo a poche ore di viaggio dalle nostre case tiepide e sicure. La mobilitazione di solidarietà di cui siamo stati capaci agli albori del conflitto si era nutrita di una reazione pronta, generosa e quasi corale: appena è comparsa l’onda del dolore abbiamo sentito il dovere umano di accorrere, per come siamo capaci, chi accogliendo i profughi, chi inviando aiuti.
Una creatività samaritana che ci è familiare come popolo e della quale sappiamo tempi e modi come fossimo nati conoscendoli per antico istinto. E adesso? Ora che quella sofferenza si rinnova e si acuisce, siamo ancora pronti a fermarci lungo la strada per prenderci cura di chi potrebbe non resistere a un inverno di fuoco militare e di gelo atmosferico?

Qui non è in questione come arrivare a una pace giusta, che dovrà pure sorgere sulle macerie e che metterà fine – sempre troppo tardi – a tanto disastro. È immediatamente in dubbio la vita di persone che hanno bisogno, ora, di generatori di elettricità, coperte e abiti pesanti, viveri e protezioni dei più fragili, per opporsi anche a questa antica forma di violenza che si rinnova e si serve del succedersi naturale delle stagioni per consumare la più innaturale delle iniquità. La nostra umanità accanto alla loro è la condizione, oggi come in febbraio, per resistere all’aggressione disarmandone l’impeto nel vedere che la vittima non resta in sua balìa.

Ai molti che non si sono mai fermati nel sostenere la gente semplice in città e villaggi di tutta l’Ucraina vediamo in questi giorni aggiungersi altri che hanno compreso come non ci sia tempo da perdere, perché qualunque notte al gelo potrebbe essere l’ultima. Ogni missile russo che fa calare il buio e il freddo nelle case degli ucraini è come se deflagrasse nelle nostre orecchie. Un boato che scuote. E impone di accendere, ancora e ancora, una disarmata e disarmante solidarietà.