Opinioni

Cosa c'è alla radice del caso Meriam. Se la sharia vince sul diritto

Giulio Albanese sabato 28 giugno 2014
Il caso di Meriam Yahia Ibrahim Ishag dovrebbe essere oggetto di un attento studio, dal punto di vista del diritto come anche per le  implicazioni politiche, a livello internazionale, che ne conseguono. La giovane donna, di fede cristiana, condannata a morte per apostasia nel proprio Paese e poi scagionata, non ha infatti ancora lasciato il Sudan ed è stata costretta a trovare riparo nell’ambasciata Usa a Khartum. Tutto questo, almeno su un piano formale, per un cavillo burocratico: non è infatti ancora stata autorizzata a partire perché, secondo la normativa locale, dovrebbe aspettare il nulla osta della Corte d’appello affinché ratifichi l’annullamento della sentenza di condanna a morte. In ogni modo, l’ospitalità concessa dall’ambasciata statunitense sembra metterla, quanto meno per ora, al riparo, anche se si stanno profilando ulteriori complicazioni. Pare infatti che in questa intricata vicenda il fratello di Meriam abbia dichiarato di essere andato alla polizia per denunciarne il "rapimento" da parte del marito (cittadino americano), poco prima che ella cercasse di partire per gli Stati Uniti. Si tratta peraltro dello stesso parente della donna che pochi giorni fa aveva fatto la dichiarazione choc secondo cui se la giovane non si fosse pentita e convertita all’islam, avrebbe dovuto morire.Il vero problema – che per certi versi sfugge a noi occidentali – è che la sharia, la legge religiosa, viene declinata nel mondo islamico con due diverse modalità. Sul piano strettamente giuridico, la competenza è della magistratura locale, ma dal punto di vista religioso, la sharia per gli Stati islamici (e dunque anche per il Sudan) si pone come norma superiore a quelle costituzionali e viene dunque assunta come una fonte suprema di legittimazione giurisprudenziale e del potere politico. In altre parole, il sistema del diritto islamico nella umma, la comunità dei credenti musulmani, appare connotato da una sorta di "diritto apicale comune", sovrastante quello dei singoli Stati islamici. In questa prospettiva, la sharia non può essere intesa alla stregua di un codice di diritto civile o penale, ma rappresenta un vero sistema di principi insindacabili, assai distante dal sistema dei diritti e delle procedure che si è affermato in Occidente, trascendendo il diritto e la stessa politica. È per così dire il fondamento, in chiave teocratica, di ogni istituzione su cui si fonda uno Stato nazionale. Da ciò si evince che la povera Meriam rischia seriamente di rimanere confinata dentro le mura dell’ambasciata Usa per il semplice fatto che la sharia è di fatto inconciliabile con il principio della suddivisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Va ricordato che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata chiamata in passato a giudicare in merito all’applicazione della sharia in Europa, dichiarando che i principi iscritti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono incompatibili con la legge islamica. La ragione sta nel fatto che tale ordinamento ha un carattere personale e confessionale, che esproprierebbe il ruolo statale di regolazione della vita sociale, introducendo distinzioni tra gli individui basati sulla religione. Occorre pertanto che la diplomazia internazionale, dunque anche la nostra, eserciti un’opera di convincimento sui governi islamici affinché vengano riconosciuti i principi fondamentali della certezza e dell’imparzialità della legge che reggono le moderne democrazie. Non per bandire l’islam, ma per favorire un giusto modello di integrazione e cooperazione, scongiurando la palese violazione dei principi sanciti dalla comunità internazionale in materia di diritti umani.