Opinioni

Chiamati a prenderci cura del nostro habitat. Senza voracità né ignavia nel premeditato giardino di Dio

Pierangelo Sequeri mercoledì 16 dicembre 2009
Nei punti estremi del grande racconto biblico si trova un giardino. Il giardino è una grande metafora dell’intelligenza d’amore. Questa primigenia intelligenza d’amore si prende cura della terra, ma è destinata agli umani.Dopo aver allestito lo scenario cosmico della creazione, Dio «piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gn 2, 8). Il primo giardino è luogo dell’iniziazione. L’uomo vi apprende di non essere un’escrescenza capricciosa del caso, una bizzarra creatura del chaos. Fin dall’inizio, come apre gli occhi sul mondo, scorge le tracce di una cura che l’ha preceduto. Il giardino dice che non è stato semplicemente creato lo spazio vuoto di un mondo, non si è aperto semplicemente un deposito di materie prime, non si sono semplicemente addensate le forze di una pulsione ottusamente ingegnosa. È stato allestito un habitat per la circolazione di intelligenza, pensiero, affetti. Nel giardino c’è premeditazione. Il giardino incorpora una disposizione della cura che precede, e la rivela. Il Creatore del mondo fa da solo. Il Signore del giardino condivide l’opera. Da allora, dovunque sia traccia di giardino – suggestione di un habitat da condividere in pace, spazio terreno non mortificato dalla privazione, equilibrio tra beni da consumare e bellezze da custodire – lì si sperimenta la continuità di questo primo segno dell’alleanza. Il giardino è un’offerta di coabitazione, che assegna la sua parte alla libertà dell’ospite per il quale è stato inventato.L’ultimo giardino è il luogo del compimento. La variante, descritta nella possente visione di Apocalisse 21-22, non è da poco. Nel bel mezzo del giardino ora risplende la Città. Il mondo edificato dall’uomo, che appare nello splendore di un habitat perfetto, redento e purificato da Dio, pietra per pietra. «In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero della vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni». Tra il primo e l’ultimo giardino, si svolge la storia del nostro delirio di onnipotenza. La storia delle nostre città rispecchia esattamente gli effetti di ciò che ogni volta, e sempre, facciamo del primo giardino inventato da Dio. La terra restituisce e rispecchia, puntualmente, la storia della nostra indifferenza senza pudore, della nostra voracità senza limiti, della nostra contesa che rende inospitale il mondo. Ne derivano effetti congiunti: l’egoismo dell’indifferente e l’aggressività del predatore rendono inabitabile la città. Uomini che non hanno cura e passione per la custodia del giardino rendono inabitabile l’intera terra: esiste anche un’ereditarietà dell’ignavia, un contagio del nichilismo. La natura invece, lei stessa, grazie alla sapienza di Dio, sarebbe molto intelligente e ospitale. Uomini senza riconoscenza per l’invenzione di Dio, siamo arrivati al punto da difendere città e anime desertificate, indisgiungibilmente, dalla parola della creazione. In molti luoghi si avviano pratiche per lo sfratto e l’espulsione, carte alla mano, del Signore del giardino.L’habitat è la prima testimonianza di Dio. E, non per caso, il primo linguaggio degli affetti condivisi. Perdi questo, perdi la Parola di Dio. E perdi la parola, semplicemente. Una colonia di animali intelligenti e predatori non fa neanche un’unghia di un mondo più umano. Il Papa vi insiste giustamente. Non è questione di semplice arredo urbano. Il Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata della Pace 2010, diffuso ieri, contiene una formula impeccabile e penetrante, a questo riguardo. «Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi». Una città inospitale con il Signore del giardino non avrà neppure foglie secche, per coprire le sue vergogne.