Opinioni

La «partita» peggiorerà. Se non si conquista il cuore degli afghani

Elio Maraone mercoledì 15 luglio 2009
La nostra missione in Afghanistan è di pace, nel senso che vuole por­tare stabilità, sviluppo, e appunto pa­ce in quel ribollente e straziato Pae­se, ma il contesto, l’aria che si respi­ra laggiù sono quelli della guerra, ed è stato ieri vittima della guerra in­torno a lui il caporal maggiore Ales­sandro Di Lisio, dodicesimo caduto italiano in un’impresa che si rivela giorno a giorno più difficile. Diffici­le anche da quando il comandante in capo della forza di peacekeeping è il loquace presidente degli Stati Uni­ti Barack Obama, che dopo la recen­te escalation militare ha annunciato adesso di cercare « una strategia d’u­scita efficace » . Alla notizia della nostra tragedia di ieri i sentimenti dominanti sono sta­ti ( e restano) quelli dello sgomento, del dolore da condividere nella pre­ghiera con i familiari del caduto, e di ammirazione per il suo sacrificio. Di gratitudine, anche, gratitudine che va estesa a quanti, specialmente no­stri connazionali, da anni si stanno spendendo per consolidare il legitti­mo sistema istituzionale e la sicu­rezza regionale, pure con l’addestra­mento dell’esercito e della polizia af­gani. A questo va aggiunta l’azione più importante, soprattutto in pro­spettiva, ossia la cooperazione allo sviluppo socio- economico locale. Tuttavia questa opera meritoria è messa a dura prova, e addirittura a rischio d’essere vanificata, dall’an­damento del conflitto, che continua ad essere sconfortante nonostante l’accresciuto impegno politico- mili­tare statunitense, soprattutto al Sud e lungo la ' frontiera- non frontiera' con il Pakistan. Durante i primi die­ci giorni di luglio nella massiccia o­perazione per il controllo della pro­vincia di Helmand sono rimasti uc­cisi 15 soldati britannici, l’altro gior­no è caduto vittima di un attentato il capo della polizia del distretto di Jai­rez ( a sud di Kabul), che era definito un modello di sicurezza dagli statu­nitensi. I ribelli taleban, anche dopo alcuni rovesci ( come quelli subìti nella val­le pachistana di Swat), dimostrano una impressionante capacità di ri­presa e di infiltrazione, dovuta a una combattività sul filo del fanatismo e agevolata dalla condiscendenza cre­scente, si teme, di una popolazione che in gran parte percepisce le trup­pe straniere come occupanti, attrici di una strategia sempre più aggressi­va che, oggettivamente, a colpi di raid aerei, ha fatto negli ultimi tempi trop­pe vittime civili, provocando l’ira giu­stificata di molti gruppi tribali. In o­gni caso, a quasi tutti gli afgani quel­le truppe appaiono schierate a so­stegno del governo centrale di Ha­mid Karzai. Ossia l’uomo che nem­meno Washington ama più, che è di­ventato un simbolo di corruzione e di impotenza, ma che fra un mese sarà il probabile vincitore di elezioni pre­sidenziali garantite anche da un au­mento del contingente militare al­leato ( italiani compresi). La partita afghana rimane dunque drammaticamente aperta, e a rischio di peggioramento. Vincerla è, spe­riamo, ancora possibile, ma a patto di conquistare la mente e il cuore de­gli afgani, evitando i cosiddetti ' dan­ni collaterali', impegnandosi mag­giormente nell’aiuto allo sviluppo so­cio- economico del Paese, un aiuto mirato anche, come inutilmente si predica da tempo, a ridurre la pro­duzione e il commercio illegale del­l’oppio, del quale si avvantaggiano i taleban ( e non soltanto i taleban). Quanto ai nostri soldati, è doveroso garantire loro il massimo della sicu­rezza rivedendo, se necessario, le re­gole d’ingaggio e rafforzandone l’e­quipaggiamento, a cominciare da quei veicoli che, come s’è visto ieri, non sono tutti ' a prova di bomba'.