Opinioni

Gran Bretagna. Brexit, se l'informazione dimentica i «no global»

Angelo Scelzo venerdì 1 luglio 2016
Vista dal mondo della comunicazione, la Brexit apre molti interrogativi. Uno su tutti, la capacità dell’intero sistema mediatico dell’era digitale di rappresentare, e quindi offrire spazio, voce, lineamenti certi a una realtà totale capace di sfuggire anche all’estrema incisività dei suoi strumenti. Non si tratta di recriminare, ancora una volta, sull’attendibilità di sondaggi che fino all’ultimo, anche nel referendum del Regno Unito, hanno assecondato un’incertezza già largamente certificata e persino fuorviato. Il punto è un altro e riguarda la natura stessa, il modo di essere di un sistema che forse sconta i limiti della sua stessa potenza. Niente sfugge, nell’era di internet e dei nuovi media, a un’informazione che finisce con l’essere invasiva, talvolta oltre i limiti del necessario. Ma accade che a essere illuminato è soprattutto il campo di luce che già conosciamo, e del quale, certo, sapremo molto di più, e da più fonti e da più strumenti. L’intensità della comunicazione è però altra cosa rispetto alla sua ampiezza; e non è detto che il raggio arrivi a estendersi oltre confini determinati. La vittoria della Brexit ha costretto a volgere lo sguardo verso un mondo che la globalizzazione ha lasciato nell’ombra. Ci si è accorti subito che i voti del leave venivano dalla campagna e dalle periferie e mostravano chiaramente i segni sociologici ed emotivi di classi meno agiate e meno culturalmente attrezzate e della paura (soprattutto anziana) per il futuro. Schierandosi per la Brexit queste aree sono venute allo scoperto, si sono fatte vive sottraendosi, con un clamore diventato assordante, a un anonimato scambiato, un po’ troppo sbrigativamente, per irrilevanza.  È qui, al cuore di questo equivoco, che la comunicazione si è trovata tra le mani qualche carta truccata. Della globalizzazione il sistema dei nuovi media è stato e continua a essere la piattaforma di lancio. Niente è più connaturato e più intimo di un sodalizio al quale dobbiamo il nostro cambio di vita e di cultura, il diverso passo con il quale affrontiamo la vita di tutti i giorni. Ma questo cammino parallelo porta per strade inconciliabili anche i limiti e i veri guasti di un rapporto dal quale riesce difficile scindere innanzitutto gli errori. Uno di questi, il più grave, riguarda la sovrapposizione: dove la globalizzazione è cieca e non riesce ad accorgersi di tensioni e malcontenti, di ritardi e di trascuratezze, neppure la comunicazione mostra la forza di mettere gli occhi, e tantomeno il cuore. Le zone lasciate in ombra si trasformano così in zone d’ombra tout court, secondo un processo che prende derive sociologiche – l’arretratezza culturale, la solitudine e la separatezza di aree lontane dai canoni di una modernità un po’ troppo disinvoltamente definita – trascurando bellamente tutto il resto. Nella circostanza lo schema è stato addirittura lampante: i nuovi media hanno messo a fuoco quel tipo di realtà – la multiculturalità e la modernità dei grandi centri, a partire da Londra, la vitalità di una finanza evoluta, il mondo di Erasmus – già largamente presente ai nostri occhi, fino a essere assunta, anzi, come l’unica esistente. I limiti della globalizzazione in maniera quasi automatica si sono estesi al ruolo di una comunicazione diventata (ma forse costituita già di per sé) una sua copia troppo conforme. Della globalizzazione i media al tempo di internet hanno finito così per condividere fino in fondo i destini, come se non ambissero ad altro che farsi strumenti del suo ufficio stampa e propaganda. Se l’una esplora e crea i mercati imponendo le sue leggi, l’altra – la comunicazione – sembra appagata dal fatto di esserne megafono e seguire passo passo le orme secondo i tracciati dei tanti interessi in comune. E il cammino che percorre è sempre già segnato, il raggio d’azione non va oltre i confini determinati. La sua forza è l’intensità, fino a una rappresentazione virale di uno stesso evento moltiplicato per tutte le sue varianti multimediali.  Ma è un circolo che resta chiuso. Dai riflettori della comunicazione ai tempi di internet escono potentissimi fasci di luce che, come specchi, finiscono spesso per essere riflessi di se stessi. Rispetto ai media tradizionali si paga il sovrapprezzo di una (forse) inevitabile autoreferenzialità, che impedisce di andare più a fondo e che lascia soli coloro che da una maggiore e migliore informazione avrebbero tutto il diritto di trarre vantaggio. Può essere questo il vizio di origine che impedisce ai nuovi media di esplorare le terre incognite non ancora sfiorate dalla globalizzazione? È un’ipotesi tra le altre. Si tratta, questo è certo, di un aspetto da approfondire: perché pensare che nella nuova vita digitale i media possano liberarsi a cuor leggero dei vecchi 'ferri del mestiere' di informare – la pazienza, la fatica e l’intelligenza della ricerca – è solo un modo per maltrattare i cittadini lettori/spettatori e la realtà.