Opinioni

Platini, Blatter, squalifiche e qualche domanda. Se l'etica diventa comitato

Alberto Caprotti martedì 22 dicembre 2015
«Lo abbiamo acquistato per un tozzo di pane. E lui ci ha messo sopra il fois gras... ». Così disse Gianni Agnelli di un calciatore francese con i riccioli scuri e il piede fatato. Che segnò 313 reti in una carriera elegante come la sua “erre” blesa. E che poi, quasi all’improvviso e all’apice della fama, il 17 maggio del 1987 dopo un Juventus-Brescia 3-2, convocò i giornalisti negli spogliatoi del Comunale di Torino, offrì spumante (italiano) in bicchieri di plastica e disse: «Non gioco più, mi ritiro...». Aveva solo 32 anni Michel Platini: non era stanco, non troppo almeno, ma possedeva l’intelligenza della misura. Aveva vinto tutto, e aveva altri mondi in testa. Meno erbosi e più politici. Ieri, dopo otto anni da presidente dell’Uefa, la Commissione Etica della Fifa gli ha inflitto 8 anni di squalifica con l’accusa di corruzione, la stessa pena decisa anche per Sepp Blatter che della Fifa è – tra processi e condanne – ancora il preistorico e diabolico boss. Ora, saranno gli appelli civili e sportivi a spiegare perché un mito del pallone, o almeno di un certo pallone, abbia davvero ricevuto da Blatter 2 milioni di indebiti franchi svizzeri nel 2011 per un imprecisato lavoro di consulenza operato nel 2002. Se e perché questo oscuro pagamento sia avvenuto proprio pochi mesi dopo la sconcertante (e poi risultata corrotta) assegnazione dei Mondiali 2022 da parte della Fifa al Qatar. E anche se e perché Platini sia magari solo finito in un gigantesco “trappolone” ordito dal diabolico Blatter, una volta che il francese era diventato suo avversario. Quel che occorre chiedersi però è anche altro. Perché ad esempio, i massimi organismi del calcio debbano dotarsi di un Comitato Etico per esistere, e per difendere il pallone dal marciume dilagante. Accade ovunque che la puzza superi la passione e l’onestà di molti, ma anche nella sua espressione più commerciale, il calcio di vertice dovrebbe essere la monetizzazione di un sentimento. Che l’etica dovrebbe possederla senza doverla riunire attorno a un tavolo. E che merita di poter credere a occhi chiusi almeno nei suoi idoli (o ex idoli) più insospettabili. Quelli che il pallone l’hanno accarezzato per anni, senza mai perdere un filo di classe. Finché stavano in campo. Le poltrone, purtroppo, sono altro. E, a quanto continuiamo a scoprire, possono arrivare a imbrocchire anche i fuoriclasse.