Opinioni

Le mamme costrette a licenziarsi. Se il discrimine è la vita stessa

Antonella Mariani venerdì 26 giugno 2020

Domenica prossima, 28 giugno, i parigini votano per eleggere il loro sindaco. Anzi, la loro sindaca, perché la sfida è tra due donne, Anna Hidalgo e Rachida Dati, entrambe di origine straniera. C’è in realtà una terza concorrente, Agnès Buzyn, anche se per lei non c’è storia.

Dal primo luglio al timone dell’Europa ci sarà una troika di donne: la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la presidente della Banca centrale Christine Lagarde e la presidente di turno dell’Unione Angela Merkel. Traguardi importanti che le italiane guardano con speranza, perché è inevitabile che prima o poi l’onda lunga del potere femminile lambirà anche il Belpaese.

Ma c’è qualcos’altro che le donne italiane non possono e non devono più attendere con pazienza: reclamare giustizia per quelle 37.611 lavoratrici che, come ha certificato l’Ispettorato nazionale del lavoro e come ha documentato ieri anche "Avvenire", nel 2019 hanno lasciato il loro impiego dopo essere diventate mamme. Il motivo più frequentemente dichiarato al momento delle dimissioni è quello ormai tristemente consueto: la difficoltà a conciliare la cura dei figli con il lavoro. Una situazione purtroppo comune che richiama numerose responsabilità. Qui ci limitiamo a evidenziarne tre, le più lampanti: la carenza o l’alto costo dei servizi per l’infanzia, la scarsa propensione di molte aziende a offrire flessibilità e strumenti di conciliazione per madri e padri, l’ancora ineguale distribuzione dei compiti di cura all’interno della coppia.

Comunque si guardino questi dati, peraltro in aumento rispetto all’anno precedente, essi rappresentano una colossale ingiustizia. È ingiusto che ogni anno diverse decine di migliaia di lavoratrici rinuncino alla loro occupazione e di riflesso all’indipendenza economica, ponendosi di fatto in una situazione di maggiore vulnerabilità sia personale, rispetto ai compagni, sia familiare come dimostrano i dati sulla povertà che incide maggiormente sui nuclei monoreddito. È ingiusto che la cura dei figli, il compito di più alta responsabilità, ricchezza e soddisfazione che la vita può regalare agli uomini e alle donne, diventi un ostacolo alla realizzazione femminile nella sfera pubblica. È ingiusto anche nei confronti dei bambini: anziché essere considerati il futuro di un Paese e quindi un patrimonio collettivo, rimangono ancora e sempre una faccenda privata di chi li ha messi al mondo. Oltre a queste palesi ingiustizie che non dovrebbero lasciare indifferente nessun uomo e nessuna donna, l’uscita dal mercato del lavoro di tante neomamme rappresenta un errore di sistema che ipoteca la crescita economica e demografica del nostro Paese.

Il tasso di occupazione femminile è del 49,5%, contro il 67,6% di quella maschile, tra i più bassi in Europa. Privandosi delle competenze, delle energie, della versatilità, della creatività di una percentuale così rilevante di donne, l’Italia perde, secondo alcune stime, l’11 per cento del Pil. L’economia, gravemente minacciata dalle conseguenze della pandemia, oggi più che mai ha bisogno del contributo delle donne. Di più: la struttura demografica italiana ha bisogno di donne e di uomini al loro fianco che vengano incoraggiati e non dissuasi dai loro progetti e desideri di genitorialità. I mesi di lockdown hanno dimostrato che il lavoro in tanti casi può 'smaterializzarsi' dalla scrivania dell’ufficio e diventare più flessibile, per uomini e donne. È una straordinaria opportunità per le aziende di implementare modelli organizzativi nuovi, che lascino maggiori spazi di conciliazione. Ma è anche, come abbiamo sottolineato più volte in queste pagine, un banco di prova per il governo: più servizi per le famiglie, più donne al lavoro, più figli nelle culle, più parità tra uomini e donne. Quelle 37mila mamme dimissionarie chiedono giustizia. Le discriminazioni hanno tanti volti, quelle verso l’apertura alla vita sono le più insopportabili.