Opinioni

Sempre più attacchi di hacker a enti pubblici e colossi privati. Se i pirati arrivano a controllare le maree di dati

Giuseppe Romano giovedì 21 febbraio 2013
​Guerre digitali crescono. L’attacco di hacker sferrato ieri a computer di dipendenti Apple, dopo quelli nei giorni scorsi a Facebook e a Twitter, suggerisce una escalation della guerra informativa: quella in cui dati e notizie sono, insieme, monete e proiettili. Il fatto che sempre più spesso si parli di hacker – termine improprio ma ormai proverbiale – che violano i sistemi elettronici di istituzioni pubbliche e di aziende private (ultimamente proprio dei giganti della Rete), implica qualcosa che va oltre i temi di cui abitualmente oggi si discute a proposito di privacy. Non sono più in questione soltanto le libertà individuali e le cautele quando si va sul web. Le persone consapevoli che si preoccupano di quanto può succedere ai loro dati sensibili messi online, magari in cambio di servizi "gratuiti", e paventano il caso che qualcuno si impossessi della loro identità per fini illeciti, dovrebbero cominciare a temere qualcosa di nuovo e di peggiore. Chi è che si dedica a forzare le difese di aziende che immaginiamo attrezzatissime nel non farsi sorprendere da simili attacchi? Qualche traccia digitale sembra rimandare alla Cina, all’Europa dell’Est, a operazioni di fantomatiche divisioni militari specializzate nello spionaggio elettronico e nel conflitto digitale. Illazioni già smentite ufficialmente con solerzia. Questi segnali fanno comunque pensare a un nuovo e più alto livello d’intrusione. Il fatto che le aggressioni siano andate a segno, ma senza conseguenze devastanti, induce a prendere in considerazione che l’obiettivo fosse appunto verificare di potercela fare, o dimostrare di avercela fatta. L’effrazione elettronica sarebbe quindi addestramento alla guerra e alla guerriglia, implicherebbe progetti volti a immobilizzare le risorse di un nemico designato o a sottrargliele da un giorno all’altro. Credo che in effetti non ci sia nazione al mondo, fra le più avanzate, che non coltivi con discrezione simili specialisti. Ma nell’epoca in cui più che mai i conflitti sono asimmetrici chiunque può mettere sotto mira, con qualsiasi intenzione, istituzioni, nazioni, organismi pubblici e privati anche sovranazionali. Questa nuova stagione dei conflitti digitali può preludere ad atti di violenza terroristica (nel suo respiro più locale fa storia anche l’effrazione dimostrativa ai siti del Tribunale di Milano e della Polizia penitenziaria, a metà febbraio), ma può nutrirsi anche di mosse silenziose che tendono a controllare e condizionare l’opinione, il consenso, l’adesione popolare inconsapevole. Chi sa forzare i filtri e accedere alle cripte virtuali dove giacciono i dati, può servirsene per incrociarli tra loro e anticipare o indovinare tendenze, paure, abitudini generali. E può farlo senza che chi è stato derubato nemmeno se ne accorga, copiando o falsificando questi dati in tutta segretezza. Poco importa per quali scopi e interessi qualcuno potrebbe operare su vasta scala per correggere e determinare, per esempio, andamenti finanziari ed economici. Non è fantascienza: resta viva e dolente l’eco degli attacchi speculativi pesanti e inopinati subiti dal nostro Paese negli ultimi anni. La portata e la perizia degli "attacchi hacker" appena andati a segno fa sfumare ogni confine fra pubblico e privato. Se sfondi la porta di Apple e di Facebook, non c’è uscio che ti resista. E, nel contempo, chi mette le mani sul patrimonio di dati custoditi da aziende in cui affluiscono milioni e milioni di utenti, ha in mano le maree della Rete. Come l’acqua, questi flussi sono un bene prezioso e universale. E come l’acqua, che ormai qualcuno chiama "oro blu" con ovvie implicazioni economiche e conseguenti aspirazioni al dominio, il mare dei dati va protetto e difeso perché il tesoro di tutti non diventi patrimonio di alcuni o tsunami che travolge ogni cosa.