Opinioni

Si impone una grande questione di civiltà. Scegliere l'eugenetica?

Francesco D'Agostino lunedì 3 febbraio 2014
Oggi è la Giornata della vita, la trentaseiesima celebrata in Italia. E in un giorno così, in questo tempo di crisi e di speranze, ci si propongono più che mai e con speciale forza domande urgenti e scomode, belle e sconvolgenti che riguardano tutta la vita delle persone, dal suo primo inizio all’ultimo e naturale istante passando per tutti quelle fasi dell’esistenza nelle quali da padri e da madri, da insegnanti, operai, imprenditori, responsabili della cosa pubblica siamo capaci – o, purtroppo,incapaci – di «generare futuro»,e futuro buono. Su una di queste domande – che non è enfatico definire domanda cruciale per il futuro stesso dell’umanità – pare necessario concentrarsi qui, oggi: davvero l’eugenetica può diventare una opzione praticabile, una via possibile?Nei giorni scorsi, un tribunale italiano (per esattezza quello di Roma) è tornato ad appellarsi alla Corte Costituzionale contro il dettato della legge 40 (sulla procreazione medicalmente assistita), per la parte in cui consente l’accesso a tale metodica solo alle coppie sterili e non a quelle fertili, pur se portatrici di patologie trasmissibili alla prole. L’esclusione legale di tali coppie dalla PMA è sospettata di essere incostituzionalmente discriminatoria, perché la pretesa di riuscire ad avere un figlio "sano" tramite questa metodica (grazie alla selezione pre-impiantatoria degli embrioni, con lo scarto di quelli malati) dovrebbe poter rientrare, ad avviso del giudice romano, nel novero dei "diritti" costituzionalmente tutelati. Di qui il ricorso alla Consulta.È probabile che l’opinione pubblica resti colpita da queste motivazioni. E più d’uno potrebbe schierarsi emotivamente dalla parte della coppia che vuole realizzare il suo desiderio di aver figli e di averli privi di malattie. È un desiderio, questo, umanissimo e in sé e per sé incontestabile: infatti non è questo desiderio che va fermamente contestato, ma la metodica che è inevitabile utilizzare per realizzarlo, che consiste essenzialmente nella individuazione, prima, e nell’inevitabile condanna a morte, poi, degli embrioni "patologici". Una metodica, in buona sostanza, assolutamente non terapeutica, ma chiaramente eugenetica.La parola "eugenetica" non compare mai nelle sentenze di tutte le corti (italiane, europee, mondiali) che hanno avallato, e continuano ad avallare, la selezioni prenatale dei nascituri. Compare però – purtroppo senza particolare evidenza – nell’articolo 13 della legge 40, da cui comunque emerge la chiara intenzionalità del legislatore di contrastare ogni tentativo di introdurre questa pratica nel nostro ordinamento. Questa è la sostanza del problema. E rifiutarsi di percepirla a livello biogiuridico – come avviene ormai sistematicamente – è segno di carente onestà intellettuale. Riconoscere infatti i diritti procreativi della persona è possibile, a condizione che questi diritti non pretendano di realizzarsi attraverso la distruzione eugenetica di embrioni appositamente creati a fini procreativi. Coloro che accusano di incoerenza la nostra legislazione, che con la legge 194 consente l’aborto di feti "malformati", ma con la legge 40 proibisce l’accesso alla procreazione assistita in tutti quei casi che essa potrebbe condurre alla produzione (e alla successiva distruzione) di embrioni "patologici", non vogliono riconoscere che le due leggi si riferiscono a situazioni ben diverse. La legge sull’aborto (violando gravemente il diritto alla vita del nascituro) legalizza l’aborto per la finalità esplicita di "tutelare la salute" di una madre che a gravidanza iniziata ha scoperto la patologia del proprio figlio, mentre la legge 40 vuole evitare che si dia inizio a una procreazione in provetta nella certezza che (almeno) alcuni embrioni prodotti in vitro saranno portatori di patologie e destinati quindi a non nascere mai.La legge italiana sull’aborto, in altre parole, e checché se ne dica e qualunque pratica si persegua, non riconosce l’aborto come "diritto", ma punta, autorizzandolo, a tutelare donne che, ricevuta dopo una diagnosi prenatale la notizia di una gravidanza "patologica", ne rimangono psicologicamente distrutte. La legge 40 invece vuole impedire a donne, che ben sanno che la propria eventuale gravidanza sarebbe purtroppo patologica, di procreare comunque, con la sicurezza di poter scartare gli embrioni malati da esse fatti produrre in provetta. La legge sull’aborto può indubbiamente (e indebitamente) essere usata anche a fini eugenetici, ma la legge 40, privata della clausola di garanzia che ne prevede l’uso solo a favore di coppie sterili, non può che acquistare il carattere di una legge che apre intenzionalmente all’eugenetica.Dietro questo ennesimo tentativo di scardinare, grazie alla Corte costituzionale, la legge 40 si nasconde quindi, e nemmeno troppo abilmente, l’intenzione di neutralizzare definitivamente il "no" all’eugenetica che sembrava, fino a pochi anni fa, generalmente condiviso. È auspicabile quindi che la Corte costituzionale capisca il vero obiettivo della decisione che dovrà prendere. Ed è ancora più auspicabile che il nostro Parlamento prenda atto che il "no" all’eugenetica che è contenuto nella legge 40 è troppo fragile e si presta a troppi equivoci: esso merita di essere ribadito in forme più adeguate e decise o di essere ribaltato in modo altrettanto inequivocabile, senza ricorrere a vie traverse. Il "sì" o il "no" all’eugenetica sono questioni antropologicamente e biopoliticamente decisive, autentici crinali di civiltà e di futuro: troppo rilevanti, quindi, per non essere discusse in Parlamento e venire lasciate a decisioni giudiziarie.