Opinioni

La baraccopoli. San Ferdinando: il "mostro" non c'è più, la giustizia non ancora

Antonio Maria Mira sabato 9 marzo 2019

Il "mostro" non c’è più, il problema è tutt’altro che risolto. Della baraccopoli per lavoratori immigrati di San Ferdinando, di quella vergogna nazionale, rimangono solo tonnellate di rifiuti. E nessuno la può rimpiangere. Andava smantellata da tanti anni e non lo si è fatto, per timori inspiegabili, resistenze inaccettabili, distrazioni e rinvii colpevoli. Comportamenti che sono corresponsabili di tanti morti, bruciati, uccisi dal freddo e dagli stenti, dalle violenze e dallo sfruttamento. Tutto questo non dovrà mai essere dimenticato. E anzi, se sarà possibile, queste omissioni dovranno essere sanzionate, se non penalmente almeno politicamente.

Per tutto questo, sono dovuti plauso e riconoscenza a chi ha condotto con professionalità e umanità le operazioni di sgombero. Gli uomini delle forze dell’ordine hanno agito con equilibrio e senza alcun eccesso. Non era scontato. Altri sgomberi, altri interventi sugli immigrati, anche recenti, non hanno avuto lo stesso stile e gli stessi esiti. Bravi, dunque, poliziotti, carabinieri e finanzieri, e i loro comandanti, a partire dal questore di Reggio Calabria, Raffaele Grassi. Ma riconosciuto questo, non si possono tacere i dubbi sul dopo-sgombero. Che toccano scelte e altri soggetti, a livello locale, regionale e nazionale.

Perché non basta eliminare il "mostro" per risolvere il problema della non accoglienza e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Perché tali erano gli "abitanti" della baraccopoli. Va sempre ricordato per evitare confusioni, semplificazioni e falsità. Parliamo, infatti, di braccianti che qui cercano lavoro a ogni stagione della raccolta degli agrumi e che qui hanno il diritto di trovare anche una casa vera. Invece hanno avuto per anni una baracca.

Ora la baracca non c’è più, ed è un bene, ma la casa ancora non c’è. Invece c’è una tenda, ennesimo ricovero d’emergenza. Meno peggio di una baracca, ma sempre una non-soluzione. Per di più poco sicura. Mettere 850 persone in spazi originariamente previsti per 450 è sicuramente un rischio, ma è anche una scelta assai poco dignitosa. E ancora peggiore è la condizione di chi non ha avuto neanche un posto sotto una tenda, ed è finito in qualche casolare diroccato o qualche baracca in campagna. Questo accade quando a contare sono solo i paletti rigidi e disumani posti dal cosiddetto decreto sicurezza e non la dignità umana. Abbiamo visto coi nostri occhi una coppia separata e immigrati respinti sebbene con permesso di soggiorno per motivi di lavoro e con regolare contratto. Per loro neanche la tenda.

No, questo proprio non va. Solo oggi è stato annunciato che il ministero dell’Interno ha assegnato 30 moduli abitativi da consegnare ai Comuni della Piana di Gioia Tauro per l’accoglienza, con una capienza di 250 persone. E altri li fornirà la Regione. Perché non prima? Non si poteva aspettare qualche giorno a eseguire lo sgombero e predisporre così un’accoglienza migliore e meno affollata delle tende? Certo la morte di Moussa Ba nell’incendio del 16 febbraio, la terza in poco più di un anno, ha reso ancor più drammatica e insostenibile la situazione, ma si poteva e si doveva fare meglio. Altrimenti i sospetti che siano decisioni mediatiche ed elettoralistiche sono legittimi. Il ministro Salvini in questi giorni ha parlato solo dello sgombero e dello smantellamento, non una parola sui diritti di questi lavoratori, sul loro sfruttamento, sui pessimi imprenditori che non contenti di pagare queste persone un euro l’ora per 14 ore di lavoro al giorno, fanno subire alle donne «viscide aggressioni a sfondo sessuale», come hanno scoperto i magistrati della Procura di Palmi nell’inchiesta che ha portato a tre arresti martedì scorso. La sicurezza non può e non deve mettere da parte diritti, giustizia, libertà e dignità.

Quando la "sicurezza" o – meglio – la fine di una condizione strutturale di insicurezza viene raggiunta in modo efficace e umano, come è avvenuto a San Ferdinando, è cosa buona. Ma è un risultato a metà. Che, anzi, rischia di produrre nel tempo altri problemi. La baraccopoli per anni è stata un dramma, ma anche una camera di compensazione di altre indecisioni. La sua distruzione non può essere un alibi per rimandare ancora una soluzione vera e completa. Una scelta parziale porterà sicuramente a nuove condizioni di degrado. Che già esistono, come abbiamo raccontato nel nostro reportage nelle campagne, tra invisibili e scomparsi, tra catapecchie e baracche. A chi interessa la sorte di queste donne e questi uomini, di questi lavoratori e lavoratrici, di questi cittadini e cittadine senza cittadinanza?