Opinioni

La via di Trump su tasse e sanità. Rischiano i poveri

Leonardo Becchetti giovedì 21 dicembre 2017

La riforma fiscale di Trump è ormai in dirittura d’arrivo. E prevede tra le misure più importanti un taglio robusto delle tasse sugli utili d’impresa (dal 35 al 21%) e uno di entità decisamente minore sulle imposte personali dei più ricchi (dal 39,6 al 37%) e della classe media. Colpisce anche l’abrogazione della tassa di successione che è uno dei pochi meccanismi fiscali in grado di redistribuire per promuovere eguaglianza di opportunità e di condizioni di partenza laddove non c’è nessun demerito per chi proviene da famiglie poco abbienti a iniziare il proprio percorso di vita in condizioni economiche più difficili.

Se un po’ tutti si augurano nei Paesi ad alto reddito una riduzione delle tasse, l’interrogativo è se un calo così marcato, concentrato sulle imprese e non sulle persone, possa veramente stimolare gli investimenti e quindi la crescita o finisca per produrre soltanto un aumento dei profitti e della ricchezza degli azionisti non creando le premesse per la ripresa della domanda interna. È forse meglio usare lo strumento fiscale, almeno in parte, in modo più chirurgico con misure come il super-ammortamento, premiando direttamente con il credito d’imposta gli investimenti per cogliere più direttamente nel segno di ciò che si vuole perseguire.

La previsione dell’organismo indipendente più importante che si occupa delle dinamiche del bilancio pubblico negli Stati Uniti, il Congressional Budget Office, è che la riforma dovrebbe comportare un costo per le finanze pubbliche in termini di minori entrate di circa 1.500 miliardi di dollari in dieci anni. La scommessa, come ai tempi della riforma fiscale di Reagan, è che la cosiddetta "curva di Laffer" funzioni. Ovvero che la riduzione delle tasse produca un tale aumento degli investimenti e della crescita, e una tale riduzione di evasione ed elusione fiscale, da più che compensare le iniziali mancate entrate fiscali tenendo in equilibrio il bilancio pubblico. Per cercare di vincere la scommessa, sostiene Martin Wolf, uno dei commentatori più autorevoli del "Financial Times", la riforma fiscale produrrà intanto una spinta molto forte alla riduzione della spesa pubblica, e a farne le spese saranno soprattutto istruzione e sanità (a partire dall’Obamacare, che favoriva l’accesso ai servizi sanitari delle classi medio-basse).

Secondo i calcoli del Congressional Budget Office la riforma porterà, dunque, alla riduzione delle coperture sanitarie per circa 13 milioni di americani nei prossimi dieci anni. E con il progressivo invecchiamento della popolazione e la qualità crescente delle tecnologie di monitoraggio e dei farmaci per la cura di molte patologie croniche (a cominciare da quelli che stanno rendendo molti tumori da mortali a cronici) non è difficile attendersi che tutto questo potrebbe ridurre significativamente l’aspettativa media di vita degli statunitensi, già significativamente più bassa rispetto ai Paesi dove la sanità pubblica funziona meglio.

Il Pil dunque crescerà per effetto della riforma, ma non sappiamo se abbastanza per evitare una forte crescita del debito pubblico con un conto salato per le generazioni future. E non è affatto detto che la crescita del Pil si traduca in un reale miglioramento delle condizioni economiche (reddito disponibile in famiglia dopo aver pagato sanità e istruzione) per quei ceti mediobassi che sono stati stregati dalle sirene plutopopuliste.

Come è noto il rapporto tra costi e benefici nella relazione tra cittadini e Stato cambia radicalmente a seconda della classe di reddito. I ceti più ricchi danno allo Stato sotto forma di tasse più di quanto ricevono in contributi mentre per i ceti meno abbienti accade esattamente il contrario.

Quando Trump fu eletto commentammo proprio su queste colonne un 'miracolo' politicoelettorale: un plutocrate che avrebbe presumibilmente ridotto il ruolo dello Stato e la progressività fiscale era riuscito a convincere i ceti più poveri a votare per lui. Il 'miracolo' è stato possibile grazie alla condizione di fondo di disagio di quella fetta di popolazione che, più di tutti gli altri strati sociali, si stava misurando con due formidabili concorrenti: l’automazione e l’«esercito di riserva» dei lavoratori a basso costo dei Paesi poveri ed emergenti. Di qui l’ostilità popolare verso i migranti e la perdita di fiducia in governi progressisti che non erano riusciti ad arginare il declino economico.

Eleggendo 'The Donald', quegli stessi elettori scontenti e sfiduciati probabilmente non si sono accorti del rischio di passare dalla padella alla brace. Il presidente Trump non ha ovviamente 'costruito' (cioè alzato, allungato e reso più respingente) il promesso muro al confine col Messico «per fermare gli stranieri» e, invece, è riuscito a varare la sua riforma fiscale, ponendo le premesse per aumentare le diseguaglianze tra ricchi e poveri. Alla Casa Bianca si spera che la ricaduta benevolente dell’aumento di investimenti e attività produttiva arrivi a migliorare anche le condizioni dei ceti medio-bassi, degli ultimi e degli scartati. Che questo risultato si realizzi è, purtroppo, tutto da dimostrare. Il rischio di questa impresa grava sulle spalle dei più poveri.