Opinioni

Rigenerazioni / 2. L’anima triste degli incentivi

Luigino Bruni sabato 1 agosto 2015
"Non ottiene il frutto della virtù chi la virtù vuol mungere" Mahabharata, Libro sacro Indù La cultura dell’incentivo non crea le virtù, ma tende a distruggerle. La lealtà ha bisogno di spazi di libertà vera e di fiducia genuina che la logica degli incentivi non consente, perché costruisce un sistema dove non c’è posto per gli atti invisibili e non controllati, che sono il cuore della lealtà Le organizzazioni non possono disporre delle virtù più importanti di cui hanno bisogno. Sono sagge quelle che accettano lo “scarto” tra le virtù desiderate e quelle che riescono a ottenere dai loro lavoratori, e che quindi imparano a convivere con l’inevitabile indigenza delle qualità umane fondamentali al loro funzionamento e alla loro crescita, senza cercare di sostituirle con cose più semplici. La prima saggezza di ogni istituzione consiste nel riconoscere di non avere il controllo sull’anima dei loro membri – ogni virtù è prima di tutto una questione d’anima. Quando questa consapevolezza manca o viene negata, le imprese e le organizzazioni non si fermano sulla soglia del mistero del lavoratore-persona e fanno di tutto per colmare lo “scarto”, finendo così per perdere la parte migliore dei loro lavoratori. L’impressionante crollo di questa forma di sapienza istituzionale è una delle povertà più gravi del nostro tempo, anche perché si presenta come una forma di ricchezza, e quindi non viene combattuta ma alimentata. Lo scarto tra le virtù richieste ai loro membri e quelle disponibili ha accompagnato da sempre la vita associata, soprattutto in Occidente. Tutte le buone istituzioni sono state mendicanti di virtù. I monasteri, i governi, persino gli eserciti avevano un bisogno essenziale delle virtù più alte delle persone, ma sapevano che queste non potevano essere ottenute con il comando o con la forza: potevano solo accoglierle come dono libero dell’anima degli uomini e delle donne. La novità oggi sta nell’eclisse totale di questa antica saggia consapevolezza, soprattutto nel mondo delle grandi imprese, sempre più convinte di aver finalmente inventato strumenti e tecniche per ottenere dai loro lavoratori tutte le virtù di cui necessitano – tutta la mente, tutte le forze, tutto il cuore – senza bisogno né della forza morale né, tantomeno, del dono. E così finiscono per ritrovarsi con pseudo-virtù. Questa distruzione di massa delle virtù ha molto a che fare con l’ideologia dell’incentivo. La cultura che si pratica nelle grandi imprese, in particolare nei vertici, sta diventando un culto perpetuo al dio incentivo, una vera e propria fede il cui dogma principale è la convinzione che sia possibile ottenere l’eccellenza dalle persone remunerandole adeguatamente. La meritocrazia, in questo senso, nasce da una alleanza con l’ideologia dell’incentivo, perché il merito viene riconosciuto costruendo un sistema di incentivi sempre più sofisticato e disegnato su misura per ottenere il massimo da ogni persona, per ottenere, possibilmente, tutto. Si crede, così, che “incantando” le persone con gli incentivi queste possono liberamente dare il loro meglio (non dimentichiamo che incentivo, incantesimo e incantatore di serpenti hanno la stessa radice). In realtà, l’incentivo non solo non è uno strumento adatto per creare e rafforzare le virtù, ma in genere le distrugge perché riduce drasticamente la libertà delle persone. L’incentivo, soprattutto quello di ultima generazione costruito attorno al “management per obiettivi”, si presenta come un contratto (e in effetti lo è), e quindi in quanto tale come una delle massime espressioni della “libertà dei moderni”. Basta però guardarlo bene negli occhi per accorgersi subito che la libertà della cultura dell’incentivo non ha nulla a che fare con la libertà necessaria allo sviluppo e al rafforzamento delle virtù vere della gente. Quella dell’incentivo è una libertà ancillare, piccola e funzionale agli obiettivi posti e imposti dalla direzione dell’impresa. È una libertà minore, che assomiglia molto a quella di un merlo dentro una voliera, a quella dei leoni nello zoo, anche se, diversamente dagli animali, noi dentro le gabbie e i parchi naturali pensiamo di entrarvi liberamente. In realtà ci entriamo ammaliati dal flauto incantatore (incentivus, cioè flauto), e non ne usciamo più. Pensiamo, per un esempio, alla lealtà. Poche parole come la lealtà sono evocate dalla cultura aziendale. È un termine chiave nei colloqui di selezione del personale, la ritroviamo in tutte le carte etiche, è parte essenziale del repertorio del dipendente ideale che ogni impresa vorrebbe avere. La lealtà è la virtù che ci fa capaci di essere fedeli a una persona, a una istituzione, a un valore, in situazioni dove i nostri comportamenti sono costosi e non osservabili. La lealtà non può essere contrattualizzata. È tutta una faccenda d’anima. Ma tutti sappiamo che in ogni contratto esiste una ipotesi implicita di lealtà, che però non possiamo comprare. I contratti non si auto-fondano perché hanno bisogno dei patti, e quindi delle lealtà e di molte altre virtù pre-contrattuali. Se i contratti sostituiscono le virtù, finiscono per minare il terreno sotto i loro piedi. Una grammatica fondamentale della lealtà la troviamo nello splendido episodio di Giuseppe e la moglie di Potifàr l’egiziano. Mentre Giuseppe si trovava nella casa di Potifàr, un giorno che la moglie su di lui e gli disse: (Genesi 39). Giuseppe rispose: . Una scelta leale che gli costò il carcere, quando la donna vistosi rifiutata lo accusò di averla molestata. Perché la lealtà emerga occorrono allora tre elementi: un rapporto di fiducia rischiosa, un costo concreto che la persona deve sostenere facendo o non facendo qualcosa che gli eviterebbe quel costo, e – terzo elemento cruciale – l’azione leale non deve essere osservabile. Il valore della lealtà si misura allora sulla base di cosa avrei potuto fare e che invece, per essere leale, non ho fatto. La lealtà è lo spirito dei patti e delle promesse, che vivono di scelte e atti visibili sorretti da atti e scelte invisibili. Ci sono parole non dette, cose non fatte, segreti tenuti dentro per amore di qualcuno per tutta una vita, che generano, rigenerano e non fanno morire i nostri patti, inclusi quelli che fondano la vita delle imprese e delle istituzioni. Parole non dette e cose non fatte di cui nessuno ci dirà mai “grazie”, ma che danno spessore morale e dignità alle nostre relazioni e a tutta la nostra esistenza. Si comprende allora che la virtù della lealtà non può essere rafforzata, né tantomeno creata, con gli incentivi. Anzi, la logica degli incentivi scoraggia la lealtà proprio perché incoraggia e rafforza i comportamenti visibili, controllabili, contrattuali. Qui si apre un nuovo scenario. La nostra capacità di lealtà non è uno stock costante, ma varia nel tempo in base alla qualità della nostra vita interiore e ai segnali relazionali che ci provengono dalle comunità nelle quali viviamo. La mia scelta di essere leale qui e ora dipenderà dalle mie ricompense morali intrinseche, ma anche dalla percezione che in quella data azienda o comunità “vale la pena” sostenere i costi della lealtà, che a volte possono essere molto alti. L’impresa non può creare lealtà – perché è tutta e solo dono libero della persona –, ma può cercare di mettere le persone già leali nelle condizioni di esercitare anche lì questa virtù. È però proprio qui che si svela il meccanismo di auto-distruzione della lealtà e delle altre virtù prodotto dalla logica degli incentivi. Le grandi imprese e banche hanno un crescente bisogno di controllare le azioni dei loro membri, di prevederle, di orientarle agli obiettivi. Temono più di ogni altra cosa le aree di azione fuori dal controllo del management, le zone di confine e promiscue; non amano le case “dove non c’è nessuno” a controllare, a gestire, a valutare. E la ragione di questa paura e di questa diffidenza è l’antropologia pessimista che, al di là delle parole, è alla base dell’impianto delle grandi istituzioni capitalistiche. I dirigenti, e ancor prima la proprietà (e a volte persino i sindacati), pensano, più o meno consapevolmente, che il lavoratore è in genere un opportunista e quindi va controllato. Nelle fabbriche di ieri questo controllo era molto grezzo ed evidente; con l’incentivo è cambiata la forma che si è rivestita di libertà, ma nella sostanza la cultura del controllo totale si è esasperata, perché arriva fino all’anima. Ecco allora che le grandi organizzazioni capitalistiche riducono sistematicamente gli spazi non osservabili di azione e di libertà. E così riducono anche le precondizioni perché possano esercitarsi la lealtà e molte altre virtù che per non morire hanno bisogno della libertà vera e di fiducia rischiosa. Si genera così una radicale e progressiva creazione di “lealtà” contrattuali, che essendo osservabili e controllabili sono prive della parte più preziosa della virtù della lealtà vera. Ci si ritrova in istituzioni popolate da virtù-bonsai, tutte controllate e inscrivibili dentro i soffitti delle imprese. E i bonsai non portano frutto, e se li portano sono minuscoli e non commestibili. Tutto ciò produce un fenomeno di grande rilevanza. Queste piccole e gestibili “virtù” funzionano abbastanza bene per le situazioni ordinarie della vita delle imprese, ma rendono le organizzazioni altamente vulnerabili nei periodi delle grandi crisi, quando ci sarebbe bisogno della lealtà e dell’anima vera dei lavoratori che però nel frattempo sono state sostituite dagli incentivi. L’ideologia degli incentivi, eliminando gli spazi incontrollabili di libertà e di fiducia, riduce le piccole vulnerabilità, ma aumenta tremendamente le grandi vulnerabilità delle imprese, che si trovano prive di quegli anticorpi etici essenziali per sopravvivere nelle malattie serie. Gli esseri umani sono molto più complicati, complessi, ricchi e misteriosi di quanto le istituzioni e le imprese credano. A volte siamo peggiori, molte volte migliori, sempre diversi. Ci ritroviamo dentro sentimenti ed emozioni che non ci consentono di essere efficienti come dovremmo. Disperdiamo infinite risorse in richieste di riconoscimento e di stima che sappiamo non saranno mai soddisfatte dalle risposte che otteniamo. Attraversiamo prove fisiche e spirituali, viviamo shock emotivi, affettivi, relazionali. Ma siamo anche capaci di azioni molto più degne e alte di quelle richieste dai contratti e dalle regole. E restiamo vivi e creativi finché i luoghi del vivere non ci spengono la luce del cuore riducendoci a loro immagine e somiglianza, cancellando quell’eccedenza d’anima dove abita la salvezza nostra e quella delle nostre imprese. l.bruni@lumsa.it