Opinioni

Creare lavoro, alimentare il futuro. Ridiamoci credito

Luigino Bruni lunedì 21 gennaio 2013
​C’è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pagare all’era della globalizzazione dei mercati e della finanza. Prima della rivoluzione industriale donne, uomini, bambini e anziani lavoravano tutti o quasi (tranne i redditieri e i nobili), perché era il solo modo per sopravvivere date quelle condizioni naturali e tecniche. Una quasi piena occupazione, ma non certo una condizione ideale né desiderabile, data la quasi assenza di diritti, libertà, istruzione, salute e longevità (i nostalgici del mondo pre-moderno dovrebbero ricordare questi dati, ogni tanto). Negli ultimi due secoli le grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno moltiplicato la ricchezza prodotta, creando molto lavoro industriale e, grazie agli altissimi livelli di produttività, molto lavoro nel settore pubblico e dei servizi. Questo mondo sta di fatto tramontando, certamente in buona parte dell’Europa, poiché l’industria non crea più lavoro, alcuni prodotti sono ormai saturi (vedi dati auto), e la crisi della produzione industriale fa sì che non si generino più risorse per la creazione di lavoro nel settore pubblico. La domanda cruciale, che di tanto in tanto torna, e non a caso, su queste pagine, allora diventa: come creare lavoro in Italia e in Europa, e quindi a far ripartire lo sviluppo, in uno scenario così radicalmente e velocemente mutato? Una prima via è accettare il declino, ma non ci piace. Una seconda strada, che ci piace ancora meno, è rassegnarsi all’idea che circa un quarto, o forse un terzo di persone in età attiva non lavorino (quelle meno abili, i vinti che restano per via) e soppravvivano grazie a una sorta di social card, da finanziare con le imposte dei più ricchi o magari con le entrate di lotterie e giochi. Ma esiste invece una terza buona strada? Abbiamo il dovere etico di provare almeno a immaginarne qualche brano o sentiero, e per evitare che le nostre parole restino solo utopie (non-luoghi), occorre iniziare da luoghi, realtà che "già" esistono, sebbene "non ancora" rilevanti al punto di assurgere a nuovo modello o sistema. Un primo brano essenziale da ridisegnare per poter immaginare una strada di nuovo lavoro e sviluppo è un potente cambiamento nel settore del credito. Non si creerà mai nuovo lavoro, oggi, in Italia e in Europa, se non sblocchiamo il sistema finanziario e bancario. I risparmi esistono ancora, e nel nostro Paese sono molti; ma che fine fanno? Dove vengono investiti? C’è tanta liquidità che oggi finisce nei luoghi sbagliati, ad alimentare rendite finanziarie e di posizione che non creano lavoro, ma normalmente lo distruggono, mentre troppo spesso finanziano criminalità e guerre (investimenti che hanno sempre reso molto). Dobbiamo invece creare dei nuovi meccanismi che orientino i risparmi dei cittadini verso buoni progetti capaci di lavoro e di futuro. Nella fase attuale, la finanza e le banche tradizionali non sono più fattori di innovazione e di sviluppo, perché troppo drogate da decenni di finanza facile e sbagliata, e perché tendono a proteggere interessi costituiti e rendite. Chi oggi ha un buon progetto veramente innovativo (nei settori dell’ambiente, dell’energia, cultura, arte, turismo, cura, cibo, abitare ...) trova troppo spesso chiuse le porte del credito. E ciò non stupisce, perché dalla storia e dalla teoria sappiamo che nelle fasi di cambio di paradigma, la finanza tradizionale non ha le categorie culturali per capire i progetti imprenditoriali veramente innovativi, quelli cioè capaci di far partire un nuovo ciclo economico. Ci troviamo, per usare le parole del grande economista austriaco Joseph A. Schumpeter, in una fase di blocco, in uno «stato stazionario», che può essere spezzato solo da innovazioni vere e di sistema, capaci cioè di creare nuova vera ricchezza, e nuovo lavoro. Ma il punto cruciale, come ci ricorda sempre Schumpeter, è che nelle moderne economie nessuna vera innovazione può partire senza banchieri innovatori, istituzioni e persone dotate di una nuova mentalità e nuovi occhi capaci di vedere le potenzialità di reddito in quei progetti che oggi possono dare una svolta a una situazione veramente difficile. Nei tempi di gravi crisi l’elemento cruciale non è tanto la diminuzione della ricchezza, ma la sua accumulazione nelle mani sbagliate: «La ricchezza bene acquistata e bene usata è un grande dono di Dio; ma ne’ ricchi è troppo pericolo» (San Bernardino da Siena, 1427). Una esperienza piccola, ma esemplare, è quella del crouwd funding (finanziamento di massa), un fenomeno in rapida crescita anche in Italia (sebbene partito solo pochi anni fa), che, con un forte utilizzo del web, mette assieme progetti imprenditoriali e gruppi di cittadini, che possono finanziarlo se vi vedono elementi di novità. Sono nuove forme di finanziamento popolare, che orienta risparmio privato verso nuovi processi produttivi, un denaro che finché resta confinato ai soli strumenti tradizionali finisce per alimentare soltanto rendite. Se saremo capaci di mettere a sistema queste nuove forme di finanza civile, dando vita non a dieci ma a decine di migliaia di progetti di finanza popolare, con adeguati interventi politici e legislativi, dando vita ad alleanze con le nostre antiche istituzioni finanziarie a vocazione sociale e popolare (una vocazione che oggi va rilanciata con coraggio e creatività), potremmo fare qualcosa di decisivo. E così emuleremo, creativamente, i francescani dei Monti di Pietà, i fondatori delle migliaia di casse rurali tra Otto e Novecento, delle casse di risparmio, delle mutue, istituzioni nate nei tempi di crisi, quando c’è un bisogno vitale di finanza civile, la sola capace di rimettere in moto la macchina economica, e così ricreare lavoro e rafforzare la democrazia.​​​​