Opinioni

Quale futuro per la Palestina. Ricostruire Gaza non serve se si mantiene l'embargo

Raul Caruso martedì 14 ottobre 2014

La conferenza dei donatori per la ricostruzione di Gaza dopo l’ultima guerra con Israele, ha raccolto 5,4 milioni di dollari. Il vertice, che si è tenuto domenica al Cairo, ha dunque liberato risorse importanti per provare a restituire un futuro a Gaza. Il conflitto, infatti, oltre a causare la morte di più di duemila persone (2.200 palestinesi e 73 israeliani), ha procurato danni materiali ingenti. Le stime ufficiali parlano, tra le altre cose, di diciottomila case distrutte, di più di centomila sfollati, e di quasi mezzo milione di persone che non hanno più accesso all’acqua potabile. La situazione economica, inoltre, è al collasso. Metà della popolazione è disoccupata e vive al di sotto della soglia di povertà con aspettative nulle, in virtù del fatto che molte imprese sono state distrutte e che oramai più del 70% delle famiglie ha bisogno di assistenza alimentare. Un processo di ricostruzione avrà bisogno di tempo e di ingenti risorse. Invero, per quanto possa apparire paradossale, l’impegno finanziario significativamente elevato, è il punto meno problematico in questa fase. Quello che davvero importa è se la ricostruzione di Gaza possa divenire un’opportunità di rilancio del processo di pace. Le prospettive non sembrano incoraggianti. Ad oggi, la guerra a Gaza ha avuto come risultato, infatti, quello di fare crescere il consenso popolare a favore di Hamas oltre a far riavvicinare questi e il governo palestinese di Fatah. Nel contempo, il governo israeliano non sembra intenzionato ad abbandonare una linea intransigente eliminando l’isolamento di Gaza. In questo scenario, quello che a questo punto davvero rileva è l’insieme delle regole che saranno applicate nella ricostruzione ed eventualmente a un piano di rilancio dell’economia di Gaza. Questi, nei fatti, saranno i nodi su cui dovranno confrontarsi israeliani e palestinesi al fine di garantire un delicato equilibrio tra sicurezza e sviluppo. Solamente dalla scrittura di nuove regole che favoriscano nuove opportunità economiche, infatti, si potrà uscire dalla spirale violenta degli ultimi anni. È chiaro che, sebbene lo sviluppo economico non basti di per sé a risolvere i conflitti, esso sicuramente rappresenta un pilastro imprescindibile di qualsivoglia processo di pace. Attualmente, l’economia della striscia è da un lato totalmente dipendente dagli aiuti stranieri e, soprattutto, incapace di svilupparsi in quanto soggetta alle restrizioni che vengono imposte da Israele al commercio e alla mobilità. La prima questione che si dovrebbe affrontare è quindi quella del blocco imposto a Gaza. Esso ha messo in ginocchio l’economia della striscia al punto che il sistema dei tunnel, poi smantellato, era divenuto vitale per gli abitanti della striscia. Attraverso i tunnel qualsivoglia categoria di beni era contrabbandata a Gaza riuscendo a eludere l’isolamento imposto da Israele. Questo tipo di organizzazione, però, aveva finito paradossalmente con il rafforzare Hamas. Da un lato, attraverso i tunnel, l’organizzazione palestinese continuava ad armarsi e, dall’altro, continuava a finanziarsi regolando e tassando il commercio di una gran quantità di beni. Il blocco di Gaza, pertanto, ha nei fatti riproposto lo schema classico delle sanzioni economiche, vale a dire popolazione in ginocchio e governanti in carrozza. In questo quadro, le popolazioni allo stremo non fanno altro che 'stringersi intorno alla bandiera' e quindi sostenere i propri governanti contro il nemico esterno. Non stupisce quindi che il consenso a Hamas sia aumentato e non viceversa. Per quanto appaia difficile, è necessario che il governo israeliano comprenda i potenziali effetti positivi in termini di sicurezza e non ostacoli un piano di sviluppo economico a Gaza. Questo, però, non è immaginabile in presenza del blocco. L’impossibilità di commerciare liberamente con il resto del mondo contrae quell’insieme di possibilità di sviluppo che favoriscono gli investimenti produttivi da parte delle imprese. In presenza di una crescita economica diffusa, la guerra non rappresenta l’unica opzione o quantomeno un’opzione desiderabile da parte delle popolazioni residenti. Viceversa, se l’insieme delle restrizioni dovesse permanere in questa forma anche durante la ricostruzione, non assisteremmo ad altro che a un ulteriore consolidamento del consenso di cui gode Hamas. Negli aiuti, infatti, si nasconde quasi sempre un lato oscuro. Essi ringagliardiscono sicuramente chi è chiamato a gestirli, ma purtroppo non aiutano necessariamente i beneficiari nella misura sperata. Infatti rischiano di divenire una grande torta da dividere in una cerchia ristretta senza reali benefici per la popolazione. Del resto, non è necessario andare molto lontani per valutare la perniciosità di questo abbinamento. Effetti simili si erano avuti con Saddam Hussein in Iraq. La combinazione di sanzioni e aiuti del programma 'Oil-for-food' avevano consolidato il potere di Saddam, della sua famiglia e della sua ristretta cerchia di fedelissimi mentre la popolazione viveva in condizioni difficilissime. Alla fine, di fronte alla resistenza del regime, una guerra sconsiderata è sembrata l’unica opzione praticabile con le conseguenze tragiche a cui purtroppo assistiamo oggi. Nel passato, in Europa abbiamo imparato, invece, che lo sviluppo e la cooperazione economica possono rappresentare un viatico per la soluzione di conflitti.  All’indomani della seconda guerra mondiale il processo di integrazione europea, favorito dal piano Marshall, ha reso impensabile la recrudescenza del conflitto tra gli Stati. La conferenza per la ricostruzione di Gaza può rappresentare la base di partenza per incominciare a concepire, pur nelle rispettive diffidenze, un percorso di rilancio del processo di pace che offra a palestinesi e israeliani l’occasione di affrancarsi da una spirale di violenza che sembra non avere fine.