Opinioni

Piccolo pro-memoria sull'impegno a tutela del matrimonio uomo-donna. Per non ridurci a recitare slogan sul deserto che avanza

Assuntina Morresi venerdì 8 febbraio 2013
Il nostro Paese ha un primato: nel 2007 per primi abbiamo avuto una imponente manifestazione nazionale a favore del matrimonio fra un uomo e una donna. Era il "Family Day", animato da credenti e non credenti, uniti nel voler distinguere la famiglia basata sul matrimonio da altre forme di convivenza che riguardano il piano dei rapporti personali, ma che non hanno natura matrimoniale. Lo Stato non può e non deve entrare nel merito degli affetti e del privato dei propri cittadini – se non in presenza di reati, ovviamente – ma ha il dovere di indicare con chiarezza qual è il volto della società che intende costruire e promuovere e per questo la nostra Costituzione, all’articolo 29, parla di famiglia naturale fondata sul matrimonio, intendendolo con chiarezza fra uomo e donna, come ha rimarcato anche la Consulta.È bene ricordare queste elementari verità, che abbiamo letto ripetutamente, per anni, sulle colonne di Avvenire, adesso che lo tsunami dei matrimoni gay sta investendo il cuore dell’Europa, dalla Francia alla Gran Bretagna, minacciando di stravolgerne le fattezze sociali e le basi antropologiche.Quando fu convocato il "Family Day" non si parlava di matrimonio omosessuale, ma di riconoscimento di convivenze, anche omosessuali: era in discussione la legge sui "Dico" promossa dal governo di centrosinistra, che i sostenitori dicevano essere una normativa solidale per le «nuove famiglie», che non avrebbe intaccato il matrimonio ma dato tutela a soggetti deboli. Eppure la mobilitazione fu massiccia e immediata, perché – sostenevano i contrari ai Dico – la famiglia è una soltanto, quella della nostra Costituzione, e qualsiasi cambiamento finisce sempre per stravolgerne i connotati, irreversibilmente: una volta modificata a livello istituzionale la definizione di famiglia difficilmente i governi successivi, anche di orientamenti politici differenti, possono tornare indietro, come abbiamo visto per la Spagna, dove il marchio di Zapatero ha lasciato un segno indelebile. Perché, ha avvertito ieri ancora una volta il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, «anche solo l’apertura, apparentemente piccola, di una fessura può trasformarsi nell’inizio di una voragine».La definizione dei cosiddetti "diritti civili" delle coppie omosessuali, e dunque non il riconoscimento di diritti individuali delle persone omosessuali, in realtà è funzionale solo alla legittimazione di queste convivenze, un passaggio intermedio finalizzato al matrimonio gay: si dà tempo all’opinione pubblica di abituarsi alla non differenza sessuale legittimata dalla legge dello Stato (uomo/uomo e donna/donna e uomo/donna sono equivalenti), in attesa del "gran passo" finale, quello appunto delle nozze gay. E infatti in Francia e Gran Bretagna il matrimonio gay arriva dopo anni di riconoscimento normativo delle convivenze "omo", accompagnato da fenomeni mediatici alla Elton John (che tutti ormai pensano "sposato", a dimostrazione della equiparazione già percepita fra convivenza e matrimonio).I diritti individuali delle persone coinvolte in legami affettivi sono tutelati dalla legge in ambito privatistico, dove già esistono gli strumenti per regolare la condivisione di beni e proprietà – per esempio – e nel quale è possibile inventarne di nuovi, nel caso in cui se ne individuasse la concreta necessità, senza invocare per questo legittimazioni furbesche di unioni simil-matrimoniali.E intanto ci si sposa sempre meno, in Europa, e nascono sempre meno figli: anche nei Paesi in cui si è investito in politiche per la natalità i matrimoni scarseggiano, le nascite sono aumentate di poco, e i tassi di natalità non raggiungono mai il cosiddetto tasso di sostituzione.Non è un caso, allora, che lo slogan francese per la nuova legge sia  "il matrimonio per tutti", che sa tanto di volantino per le liquidazioni: l’offerta a buon mercato di fine stagione, quella in cui si svuotano gli scaffali prima di chiudere. Non ci si può rassegnare a considerarlo l’ultimo slogan sul deserto demografico che avanza.