Opinioni

L'emergenza globale (e italiana) non si può ridurre a una sola dimensione. Capire la radice sociale della crisi economica

Carla Collicelli domenica 27 novembre 2011
I fattori costitutivi della crisi economico finanziaria e politica che stiamo attraversando sono ormai chiari a tutti. Poco o per nulla si riflette invece sui fattori sociali che ne costituiscono un importante corollario, sia come cause scatenanti che come elementi concomitanti. Eppure, proprio nei giorni scorsi, è tornato alla ribalta il tema del rapporto tra i sentimenti sociali, le loro manifestazioni e il potere. Le dimostrazioni di piazza al Quirinale, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli dopo le dimissioni del governo Berlusconi sono state prevalentemente pacifiche, ma non si può fare a meno di osservare che abbiamo assistito ancora una volta a espressioni di facile entusiasmo, a fronte di una congiuntura molto difficile e persino drammatica.Da sempre nella storia i momenti di passaggio di potere sono stati accompagnati da forme simili, più o meno significative ed estese, e 'acclamare, distruggere, seppellire' sono sin dall’antichità fenomeni sociali ricorrenti. Dalle democrazie moderne, cosiddette avanzate, ci si aspetterebbe però una crescita di consapevolezza e un gradiente di maturità in più, ad esempio rispetto alle degenerazioni di quei fenomeni, quali gli attacchi personali, anche solo verbali, lo sberleffo o la gioia ostentata per la caduta dell’avversario. In realtà dobbiamo constatare che il mondo moderno produce una continua riedizione degli antichi momenti di sfogo che, per l’impatto dei potenti strumenti e canali di comunicazione contemporanei, si accompagna a forme di spettacolarizzazione e di propagazione universale, che ingigantiscono sulla scena sociale gli eccessi, riducendo le possibilità di una riflessione più pacata e lungimirante. Con evidenti rischi di impoverimento culturale e, qualche volta, di vero imbarbarimento. Parliamo di fenomeni che si dipanano a ogni latitudine, in Italia però si aggiunge un elemento in più, su cui è bene riflettere, che ha a che fare con una predisposizione particolare nel Paese alla sfiducia, sempre e comunque, nelle pubbliche istituzioni, e con una non piccola dose di mancanza di responsabilità civile. Un elemento che conferisce al clima sociale una connotazione particolarmente critica. Emerge una sorta di personalismo cinico, che finisce per agevolare un approccio alla crisi tutto centrato sulla dimensione finanziaria. È chiaro a tutti che la situazione attuale richiede l’utilizzo di strumenti eccezionali rispetto alla normale azione di governo di un Paese come l’Italia. Questa constatazione non sembra però accompagnata a livello sociale da una sufficiente consapevolezza dei risvolti problematici di una gestione di governo tutta spostata sull’asse delle decisioni economico-finanziarie e su quello delle compatibilità di tipo internazionale. Usciremo, di questo passo, almeno ce lo auguriamo, dall’emergenza titoli di Stato e Borsa. Ma viene spontaneo chiedersi quando cominceremo a mettere mano all’insieme delle questioni politiche, sociali ed economiche che frenano lo sviluppo del Paese. Emergenza finanziaria, e conseguente riduzionismo economico, non fanno bene allo sviluppo nel senso pieno del termine. Dice Alain Ehrenberg nella Società del disagio che soffrono di più in simili congiunture i Paesi, e i popoli, la cui identità è centrata sulla dimensione individuale, più che su quella collettiva e istituzionale. Le società e le culture mediterranee avrebbero questa caratteristica, meno adatta alla modernità globalizzata e alle sue sfide. In Italia si aggiunge a ciò la questione delle grandi differenze sociali e culturali, tra una parte meridionale decisamente più mediterranea, e una settentrionale con forti influssi di tipo nord-europeo. Ma non va dimenticato quanto già Leopardi affermava, e cioè che le vere élite italiane (intellettuali, economiche, morali) si tengono, per lo più, distanti dall’impegno politico, privando il Paese di forze vitali essenziali. È il nodo che addita anche Christopher Lasch quando parla di «sciopero delle élite», e non solo per le culture mediterranee ovviamente. La crisi va dunque affrontata tenendo conto di tutti questi fattori. E se la congiuntura economico-finanziaria ammette un intervento straordinario all’insegna del riduzionismo economico dei problemi, bisogna da subito pensare allo sviluppo di una cultura civica – comunitaria e individuale – più matura e più volta a consolidare il bene comune. È necessario un maggiore impegno delle élite morali e sociali del Paese. E la riflessione che su questo punto si è aperta nel mondo cattolico rappresenta un segnale incoraggiante.