Opinioni

Nel monastero di Valserena, a Guardistallo (Pisa). «Qui per essere ascoltati. E così sentirsi rinascere»

Marina Corradi sabato 6 agosto 2016
Guardistallo (Pisa) – I boschi si infittiscono man mano che ci si allontana dalla costa. Siamo in provincia di Pisa, ma Livorno è a un passo. Tra queste prime colline dell’entroterra cipressi, uliveti, l’ocra della terra, e la strada che si fa deserta. Un cancello, un giardino. Profumo di ginepro e di Mediterraneo. Il mare, laggiù, lo si indovina nella linea azzurra dentro a un’aura di foschia. Il monastero cistercense di stretta osservanza di Valserena, fondazione di quello di Vitorchiano, è del 1968. Di quel tempo porta il marchio, in una modernità scabra: mattoni nudi, cemento, il tetto della cappella che si alza, concavo come una vela di acciaio. Quaranta monache vivono qui, delle quali sei professe e una novizia. In chiesa, la grata della clausura è ridotta a un basso cancello di bronzo. Vedi in volto le suore, durante le funzioni – in fila, il velo nero sulla veste bianca. È una clausura dal timbro solare questa di Valserena, pronta a offrire una parola a chi bussa alla porta. La foresteria si affaccia sulle terre del convento: vedi le monache sotto il sole, in veste azzurra da lavoro, intente a zappare. Vivono dei cosmetici naturali tratti dai prodotti del giardino. Sotto il sole allo zenit di luglio è così antica, l’immagine di queste donne curve sulla terra. Poi una campana chiama a Nona: «L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora», le sentirai cantare.La monaca foresteraria si chiama Rosalia e accoglie materna gli ospiti. Ti porge un foglio con gli orari delle funzioni. Lo scorri, la guardi, Rosalia ti sorride: «Come le paiono?» Beh, diciamo esigenti: Mattutino alle 3 e 30 della notte, Lodi alle 6 e 20. Nona a mezzogiorno, poi colazione. Lieta sorpresa: pasta col pesce fresco e zucchine dell’orto, con un sapore del tutto diverso da quelle di Milano. Poi con un’altra ospite laviamo i piatti e rimettiamo tutto scrupolosamente al suo posto: le monache esigono un ordine perfetto. L’afa oggi schiaccia questa conca fra le colline. Il caldo, il silenzio, la gran luce ti fan pensare di essere come uscito dal tempo normale; di essere entrato in un tempo altro, scandito dalle preghiere. Di fronte a me a tavola c’è Silvia, milanese, pensionata, l’aria della donna attivissima che non sta ferma un minuto. «Vengo qui una volta all’anno, per fermarmi. Per riflettere e pregare sulla mia vita», dice. Fermarsi, smettere per qualche giorno di correre e mettersi davanti a Dio. E’ questo che richiama ogni anno mille visitatori a Valserena. Come a Orta San Giulio, la prima impressione per chi arriva da fuori è l’incombere del silenzio. Molti vengono proprio a cercare questo silenzio. «C’è anche qualcuno – sorride madre Maria Francesca, maestra delle giovani professe – che fatica a reggerlo. Allora vuole dire che davvero ne ha bisogno, e che ci deve stare». In parlatorio, senza alcuna grata, madre Francesca mostra un volto giovane sotto ai capelli grigi ai margini del velo. Colpisce nelle monache questo viso liscio, senza le rughe delle loro coetanee, senza le contratture dell’ansia o dell’amarezza che leggi sul volto delle persone mature, fuori. (Ti sfiora il dubbio che davvero, come tra la Marta e Maria del Vangelo, siano loro, ad avere scelto la parte migliore). Madre Francesca racconta della comunità, che ha generato due fondazioni: una a Huambo, in Angola, «dove dopo 25 anni di guerra la gente è alla fame. E una in Siria, non lontano da Homs, in una zona toccata dalla guerra e dove le nostre sorelle sono, miracolosamente, riuscite a restare». Restare, in Siria? Sotto alle bombe, nella ferocia che la guerra ha generato. Queste trappiste col velo nero e la veste bianca, che da lontano ti fanno pensare alle rondini, sotto l’apparenza mansueta devono essere, pensi, forti come carri armati. Chi viene a cercarvi qui a Valserena? domandi. «Abbiamo visitatori che tornano ogni anno, quasi a fare il punto della loro vita. Poi, gente di ogni tipo bussa alla nostra porta». Cosa vi domandano, più di ogni altra cosa? «Mi colpisce avvertire in loro una grande domanda di paternità e di maternità, di trovare un padre o una madre che li ascolti e li guidi. Però non ne sono consapevoli. Nel mondo, del resto, questo bisogno è negato o ridicolizzato. Poi, incontriamo molti che a una certa età non sono più capaci di dare un senso agli eventi dolorosi della vita. Hanno un profondo bisogno di essere ascoltati: i sacerdoti, ci dicono spesso, non ne hanno il tempo, hanno troppe cose da fare. Tanti vorrebbero aprire l’anima, ma non trovano un volto che li ascolti». E i ragazzi, invece? «Spesso mi pare che abbiano poco alle spalle, che non abbiano ricevuto una proposta di umanità e una ipotesi di vita. Manca loro la capacità di riflettere su di sé, di fare di se stessi una continente da esplorare. Eppure – continua madre Francesca – ho visto arrivare qui gente davvero rovinata, di cui avresti detto che non aveva speranza: e invece sono rinati. Io posso testimoniare che, davvero, Dio salva chi si lascia salvare».Fuori, l’ardore del sole comincia a scemare. Piante e fiori in quest’ora emanano i loro acri e dolci profumi nell’aria immobile. Questa pace, questa pace, pensi, come è densa e quasi difficile da sopportare, per chi è abituato a una redazione, ai telefoni che suonano, al traffico di Milano. Qui è l’ora dolce dei Vespri. Nella cappella, oasi di fresco nell’afa, le monache si allineano, tutte simili sotto al velo. Giovani e anziane cantano i Salmi: «... Di me ha cura il Signore. Tu, mio aiuto e mia liberazione, mio Dio, non tardare». In parlatorio la priora, Madre Patrizia, racconta che accoglie i gruppi che giungono al monastero: «Vengono laici, sacerdoti, giovani, famiglie. Sempre di più, fidanzati che si preparano al matrimonio. Li vedi che all’arrivo sembrano spaventati dalla nostra vocazione, dal nostro 'per sempre': ma poi scoprono che anche il monastero è una famiglia, e che d’altra parte anche quella del matrimonio è una vocazione per sempre. Mi ricordo una giovane coppia di conviventi con un bambino, e come mi guardava lei, alla fine: 'Ma voi in fondo – mi ha detto – avete i nostri stessi sentimenti'. È bello, mostrare l’umanità di un monastero. Tanta gente ci porta i suoi dispiaceri: lutti, fallimenti, crisi familiari. Vengono gruppi di divorziati: quanto dolore vediamo in loro». Accade di trovarsi di fronte a uomini che piangono come bambini, per un matrimonio finito. Proprio gli uomini appaiono più vulnerabili, e incapaci di fare fronte a un rifiuto della loro donna. «E però – continua madre Patrizia – incontriamo anche persone spezzate da un lutto, che dopo anni di lontananza tornano a Dio. E l’ora delle lacrime, è un miracolo». Fiumi in piena davanti al volto materno di una monaca, una che finalmente resta ad ascoltare. «I preti non hanno tempo», nessuno ha più tempo. Il monastero come un grembo accogliente per tanti taciuti dolori.Compieta, alle sette e un quarto, ti lascia con la dolcezza mite dal cantico di Simeone. Si cena, e poi è ancora così presto, il sole è ancora cosi alto. Come farò a dormire, a quest’ora, si chiede il visitatore. Poi, lento, il sonno arriva. Lo taglierà, brusca, la sveglia alle tre e un quarto del mattino: Vigilia è alle tre e mezza. Esci nella notte verso la cappella, alzi gli occhi: che clamorosa stellata. Le Orse e la cintura di Orione così splendenti, grandi, vicine. Voglia di inginocchiarsi. In chiesa, la prima preghiera spezza la notte. Tutte le notti, prima che sorga il sole in quante, in tutto il mondo, pregano a questo modo, pensi guardandole: che bellezza, che mistero. Nel fondo dei boschi del Livornese, Valserena ti appare come un luogo di silenziosi miracoli. (Dopo la tragedia di Rouen abbiamo richiamato le suore. «Lo abbiamo appreso con dolore stupito – ci hanno risposto – ma anche con la convinzione che siamo in un tempo che chiede tutta la nostra fede, chiede di giocare tutto ciò che abbiamo ricevuto, chiede anche di capire per cosa stiamo combattendo. Questo fatto ha avuto per noi la caratteristica di una firma. Il volto della menzogna e di Satana si è svelato, colpendo al cuore il bersaglio cui mira: un sacerdote nell’atto di celebrare la Passione e Risurrezione di Cristo, dell’Agnello sgozzato. Il volto di Don Jacques si unisce al volto dei nostri sette fratelli sgozzati, al volto dei cristiani decapitati sulle spiaggia della Libia, ci chiede di intensificare e purificare la fede e di svegliarla nel caso dormisse, e di andare avanti con fiducia – perché nell’Apocalisse l’Agnello sgozzato è ritto in piedi, è Risorto»).(3 - continua)