Opinioni

Il caso Vendola. Utero in affitto, è questo che si vuole?

Francesco Ognibene martedì 1 marzo 2016
Se ancora c’era bisogno di vedere le cose così come sono, adesso non c’è più alcun dubbio: in un colpo solo, e con l’impertinenza che usa la realtà per spazzar via chiacchiere e finzioni, la vicenda del "figlio di Vendola" (che figlio suo in effetti non è) sta chiarendo a tutti cosa sono la maternità surrogata, il mercato globale dei grembi femminili e dei figli su ordinazione, la "stepchild adoption" piegata a tutto questo e l’inadeguatezza della normativa vigente per fermare una commedia delle ipocrisie occultata sotto la maschera della libertà, dei diritti e persino dell’amore. Un caso più esplicito di così non lo si poteva immaginare, nel bel mezzo del dibattito italiano su unioni civili, adozioni e genitorialità delle coppie dello stesso sesso. Serve solo il coraggio di osservare bene gli avvenimenti, senza cambiarne i connotati per continuare a far finta di non vedere. I fatti, così come ci sono stati laconicamente riferiti dai protagonisti, ci permettono di ricostruire una vicenda da manuale, una di quelle che i lettori di "Avvenire" conoscono sin dall’estate 2013 quando il nostro quotidiano avviò una campagna informativa tanto approfondita quanto purtroppo solitaria sullo strutturarsi di un vero supermarket mondiale della vita nascente, che prospera sulla pelle delle donne usate come incubatrici a pagamento, poco importa davvero se questo avviene con la complicità di leggi nazionali spregiudicate e pragmatiche (è il caso di quella della California, teatro del caso) e con l’avallo di un passaggio di denaro a norma di contratto.Sabato scorso in una clinica californiana è nato Tobia Antonio, figlio di Ed Testa, 38enne italo-canadese, e di una donna americana della quale nulla si sa se non che vende i suoi ovociti prelevati in anestesia totale a cliniche specializzate in fecondazione artificiale e surrogazione di maternità. È in una di queste strutture che si è realizzato l’incontro tra la domanda di un cliente con disponibilità economiche e l’offerta di gameti femminili col patrimonio genetico desiderato. A questa prestazione poi la clinica ha aggiunto quella di una madre surrogata per la gestazione del bambino concepito in provetta. La legge californiana prevede la firma di un regolare contratto tra donna che affitta il proprio grembo e committenza, con la mediazione di un avvocato e l’intervento di un giudice che prima del parto firma un ordine per consentire l’attribuzione della genitorialità non alla donna che partorisce, ma a chi le ha commissionato la gravidanza in cambio di una cifra pattuita. Le clausole del contratto prevedono, di norma, che la donna nel cui ventre viene impiantato l’embrione frutto di una combinazione di gameti incrociati dal mercato della filiazione in provetta accetti - tra l’altro - di abortire se il feto dovesse mostrare anomalie, e che soprattutto si impegni a non fare tante storie quando il bambino le verrà sottratto alla nascita per la consegna a chi l’aveva ordinato e pagato. Quando si ragiona di madri a pagamento le cose stanno così, e nessuna antilingua può trasformarle in qualcosa di diverso. Ci dicono che è meglio evitare l’espressione 'uteri in affitto': ma è di questo che stiamo parlando, e non - come viene suggerito - di 'gestazione per altri', espressione elusiva e ingannevole, dal sapore orwelliano. Ci dicono, ancora, che la madre surrogata «farà parte della famiglia», ma il figlio del suo grembo non sta con lei, come doveva e voleva per suo istinto innato: nessuna 'famiglia' degna di questo nome toglierebbe un bebè alla mamma che l’ha appena partorito. E allora, almeno parliamoci chiaro. Tobia Antonio, che accogliamo con tutta la gioia per una nuova vita, è figlio di questa complessa partita genetica, economica e legale, nella quale curiosamente quello che passa per il suo 'papà' centra solo come compagno di Ed Testa, e dunque col bambino non ha nulla a che fare, salvo aver progettato questa complessa operazione contribuendo a saldare il conto. Il presidente di Sinistra Ecologia e Libertà, già parlamentare della Repubblica nonché per 10 anni (fino al 2015) uomo di primo piano delle istituzioni come governatore della Puglia ha deciso di violare una legge dello Stato, la 40 del 2004 che all’articolo 12, comma 6, tutt’oggi prevede testualmente che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». In altre parole, in Italia quello che ha fatto è un reato, e neppure di poco conto.  Legge sorpassata? Non la pensa così la Corte Costituzionale, che nella sentenza dell’aprile 2015, dopo aver aperto alla fecondazione eterologa, si è occupata anche di surrogazione di maternità parlando di «prescrizione non censurata e che in nessun modo e in nessun punto è incisa dalla presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia». Vietata, punto e basta. E andare all’estero per farlo non cambia la realtà. Che nella sua semplicità parla di un bambino con una madre genetica (la venditrice di ovociti), una gestazionale (chi l’ha partorito), un padre biologico e il suo partner che - complice la legge di uno Stato dove ciò è consentito, presumibilmente quella canadese - chiederà di adottarlo. Quatto 'genitori' per un bebè: così cambia la filiazione nell’era dei diritti on demand.  A questo punto è chiaro quello che potrebbe accadere in Italia se andasse in porto lo sciagurato progetto dell’«adozione per tutti » vagheggiato ancora ieri da esponenti del partito del premier: nulla più potrebbe frenare il mercato dei bambini, così come l’abbiamo raccontato. Ci pensino molto bene i nostri parlamentari, con onestà intellettuale: è questo che si vuole?