Opinioni

Milano scossa e impegnata dall'uccisione del suo «ghisa». Questa consumata barbarie riaccenda il bisogno di memoria

Marina Corradi sabato 14 gennaio 2012
​Si era piazzato davanti al muso del grosso Suv con la sua bicicletta di vigile di quartiere. Il conducente come se quell’uomo davanti a lui non esistesse ha accelerato e l’ha travolto, trascinandolo per trecento metri. Trecento metri con le membra di un uomo e i rottami della sua bici che si aggrovigliano sotto le ruote, sono tantissimi. Non solo un istante di furia, un urto, la fuga: ma come l’avventarsi con ostinazione su un nemico, continuando a spingere sull’acceleratore per interminabili secondi. Milano è attonita dopo la morte di uno di quelli che qui si chiamano "ghisa", un ex ragazzo venuto dal Sud in cerca di lavoro; uno che percorreva le strade della Bovisa, tra fabbriche dismesse e la folla degli studenti del nuovo Politecnico che va a lezione ogni mattina. (Proprio quel quartiere un tempo così popolare e così nobile, simbolo della vecchia Milano operaia, rende emblematico e più sbalorditivo ciò che è accaduto). Non c’è questa volta, sembra, un automobilista borghese impazzito di rabbia per un insulto, come è già accaduto, dietro alla tragedia di via Varé. Si parla di due pregiudicati, forse nomadi. Si potrebbe essere tentati di dire: non gente di qui. Ma Milano appartiene ormai a tanti, venuti da lontano, che un simile magro sollievo è impronunciabile. Milano è ormai la gente che incontri sugli autobus in periferia, di ogni lingua e colore. E la Bovisa è, profondamente, Milano. Dunque, ciò che è accaduto l’altra sera ci riguarda tutti. C’è, nella fine di quel povero vigile coraggioso, qualcosa che ci spaventa perfino di più dell’omicidio: è l’accanimento, sono quei trecento metri senza frenare, senza sentire le grida, nel silenzio atterrito dei passanti. Usando un’auto, una delle nostre auto perfette, potenti, intelligenti, come un ariete su un campo da guerra medioevale. Tonnellate di acciaio lanciate addosso al "nemico" che si para davanti, reo di avere reclamato una precedenza, un parcheggio, o, semplicemente, come Niccolò Savarino, di avere preteso, inerme su una bici, il rispetto della legge. C’è, nel ruggito del motore che l’altra sera ha riempito una via della Bovisa, un odore di violenza primitiva, estranea al sistema di diritto e di etica su cui la nostra civiltà sta in piedi. Un rigurgito di caverna, nell’ora di punta, nel traffico di Milano. Il vigile fermo davanti al Suv si appellava alla sua divisa, all’ordine costituito; e anche, inconsciamente, a quella tacita fiducia fra uomini di un normale Occidente, per cui è certezza che l’acqua che ti servono in un bar è potabile, il cibo commestibile, che ci si ferma col rosso, che non si travolge un uomo. Il rombo dell’auto balzata in avanti in via Varé è passato anche sopra a queste ordinarie certezze. Oltre all’orrore di quei metri nel sangue, uno sbalordimento: che città stanno diventando le nostre, e forse una mutazione le percorre accanto ai nostri passi, ogni mattina?Qualcuno a Milano stamane, come inavvertitamente, nel salire in auto ha bloccato la chiusura delle portiere dall’interno. Click. Senza quasi pensarci. Ogni tanto, in questa nostra foresta di asfalto ci si può imbattere in un lupo. E quasi la voglia e la necessità di bussare alla porta di un vicino, di parlare con la gente sul tram di quel vigile, di quel ragazzo del Sud: avete sentito, che è successo alla Bovisa? (I più vecchi trasecolano: la Bovisa, dove gli operai andavano al lavoro con il pranzo nella schiscetta). Quasi il bisogno di umanamente incontrarsi e rassicurarsi: quei codici anche taciti del vivere insieme esistono, tengono ancora. Il bisogno di ricordarceli, di stamparli nei figli nostri, e nei figli che erano (e più non sono) stranieri: memoria forte, a fronteggiare questo sinistro fiotto di barbarie.