Opinioni

Impossibili, tenaci, sorprendenti. Quelli che ce la fanno

Alessandro Zaccuri domenica 1 luglio 2012
Dateci un’impresa da compiere, purché sia impossibile. Un ostacolo da supera­re, ma così alto che a vederlo incuta sogge­zione. Lacrime da spendere, sangue da ver­sare. E alla fine una vittoria su cui nessuno, forse neppure noi stessi, avremmo scom­messo. Eccolo qui, il carattere degli italiani, che si rivelano insuperabili nell’emergenza quanto appaiono incerti nell’ordinaria am­ministrazione. Si è visto a Varsavia l’altra sera, in una parti­ta di calcio a commento della quale ci si è sbizzarriti – e giustamente – nel gioco delle metafore e contrometafore. Sembrava la rap­presentazione plastica dello spread , con un saldo in passivo già segnato a danno degli Azzurri, che invece hanno ribaltato ogni pro­nostico, liquidando una sconcertata Nazio­nale tedesca. Che a decidere la serata sia sta­ta la doppietta di un afro-bresciano come Mario Balotelli non è che la conferma – su­perflua per alcuni, niente affatto scontata per molti altri – di come questa particolare, in­definibile dote rappresenti davvero il meglio e il vero del nostro Paese. È una virtù che, se provi a nominarla, sfugge. Coraggio? Non proprio. Spavalderia? Non solo.Se l’equivo­co non fosse sempre in agguato, verrebbe vo­glia di appellarsi alla Sardegna, la regione da cui tutto, in un certo senso, è cominciato (ri­cordate la storia di casa Savoia?), per dare cit­tadinanza universale a un termine più che lo­cale, il corrusco balentìa, dal quale almeno in parte la nostra inafferrabile italianità vie­ne illuminata. È, tra l’altro, la capacità di re­stare al proprio posto, i piedi piantati a terra contro ogni avversità. Difendere e difender­si, non arrendersi e magari cadere, come quel mingherlino di Dorando Pietri alla marato­na di un’altra Olimpiade londinese, anno 1908, ma Dorando era un emiliano, gente che non crolla neanche quando il terremo­to prova a buttarla giù e che la corsa la vince lo stesso, non importa se i giudici hanno già decretato la squalifica. In tutto questo, la sfida di questa sera è pro­babilmente la più insidiosa perché, se c’è in Europa un altro popolo con la propensione all’inverosimile, è per l’appunto quello dei cugini spagnoli, solo che loro come eroe na­zionale hanno il don Chisciotte di Cervantes, uno che tiene fede alle proprie chimere per centinaia di pagine salvo poi ricredersi al­l’ultimo capitolo, mentre noi ci riconoscia­mo – chi più, chi meno – in un visionario di tutt’altro tipo, il Dante della Commedia. Lui non farebbe tutta quella fatica se non ne va­lesse veramente la pena. Non salirebbe fino in cielo, se non fosse convinto che il cielo non è vuoto. Questa forza è, come spesso acca­de, anche la nostra debolezza.Finché il ci­mento non si profila all’orizzonte, ce ne re­stiamo quieti, e indugiamo dove gli altri quo­tidianamente si applicano. Anche questo fa parte della leggenda: le autostrade che non si riescono a completare, le linee di metro­politana che non entrano mai in funzione, le grandi manifestazioni organizzate sul bilico del ritardo irreversibile. E i disservizi di rou­tine, certo, i burocratismi di ritorno, il fatali­smo che dalle nostre parti ha sempre un sen­tore di carta bollata e un retrogusto di nor­ma applicativa. Difetti proverbiali, sotto i quali si nasconde la tenacia temibile di una nazione che si e­salta all’incombere dell’ineluttabile. E che da domani, archiviato l’impegno degli Europei, potrebbe stupire il mondo se solo trovasse la forza di guardare in faccia una crisi troppo a lungo negata.C’è da soffrire, ormai lo ab­biamo capito. Tanto vale cominciare subito. E che nessuno si azzardi a dire che non pos­siamo farcela.